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Perfect Days di Wim Wenders
La critica cinematografica e il giornalismo cinematografico sono morti. Quindi, ammesso che qualcuno stia leggendo queste righe, è stato recentemente vaticinato da alcuni media britannici che il futuro del racconto cinematografico sarà affidato sempre più e soltanto agli influencers e sempre meno ai professionisti – o presunti tali – legati al giornalismo audiovisivo. Una notizia che, del resto, nel nostro paese non deve cogliere di sorpresa nessuno se si pensa che la stessa Chiara Ferragni aveva basato le fondamenta del suo impero sul racconto delle sfilate di moda e sul suo blog personale, prima di diventare lei stessa una protagonista del Made in Italy e delle cronache prima mondane eppoi, ahimè, anche giudiziarie.
Oggi, dunque, quella che doveva essere un’eccezione sta diventando sempre più una regola rigida e quindi, un po’ come un panda consapevole di essere pronto all’estinzione, rosicchiando l’ultimo saporito bambù, leggo un dotto articolo del grande trade magazine Screen dove ci sono una serie di dichiarazioni ispirate al fondamentalismo della comunicazione, che in confronto quelle della birreria di Monaco dove si radunava la futura gioventù hitleriana, sembrano conversazioni da oratorio. Il tono di queste dichiarazioni è, infatti, più che perentorio e da fine dei tempi: “Raggiungono un pubblico che le pubblicazioni tradizionali, semplicemente, non riescono a contattare” e inoltre “sono in grado di mostrare quello che gli altri non possono sperimentare, evocando così nel pubblico la paura di essere esclusi (FOMO: fear of missing out) e quindi suggeriscono allo spettatore l’urgenza di andare al cinema”.
E se aveste qualche perplessità di fronte a queste parole aspettate l’ultima grande perla di saggezza: “Gli influencers non sono obbligati a scrivere o a parlare di un film se non sono stati pagati” (ammappete, avrebbe detto poco elegantemente un mio zio di cui mi sono vergognato fino alla fine dell’adolescenza). “È un dato di fatto che se qualcuno è stato invitato ad un evento e si è divertito, alla fine, farà qualche post per raccontarlo (sottointeso: gratis)”. Come se non bastasse, c’è qualcuno che forse anche per non essere stato pagato, si “ribella” dinnanzi a queste regole come ricorda un manager di tanti influencer che si è trovato a gestire una crisi con una dei suoi “amministrati” che ha etichettato in una sua storia su Instagram un film visto in una proiezione gratuita come "uno dei peggiori del 2023”.
“Diciamo sempre che se un influencer viene invitato a una proiezione, ha tutta la libertà di parlare del film sia in modo positivo che negativo”, afferma munificamente il manager di cui per il nome rimandiamo all’articolo di Screen pubblicato a dicembre: “Ma dirò sempre all'influencer di evidenziare un ringraziamento e un apprezzamento per l'invito”. Insomma, un po’ come negli omicidi di mafia: “Non è una questione personale, ma solo di affari”, dice l’assassino all’assassinato. Tutto molto divertente, se non risultasse, invece, agghiacciante.
Personalità dei Social Media che influenzano il modo in cui il racconto cinematografico si deve sviluppare e non viceversa: se sei pagato fai pubblicità (ed è bene ricordare che i giornalisti, per il loro codice etico, non possono pubblicizzare o almeno non dovrebbero fare promozione per dei prodotti), se non sei pagato vieni e – in genere – scrivi quello che vuoi. Poi se il film non ti piace, almeno, ringrazia per il cortese invito. Insomma, una situazione patetica dove l’ipocrisia e la manipolazione hanno significativamente la meglio sul racconto “professionale”. Si dirà che è così anche per gli alberghi, i viaggi, le vacanze e perfino per la tecnologia e – peggio ancora – per la politica.
Eppure, c’è qualcosa di malsano nel pensare che il racconto di un’attrice agli Oscar, che beve questo cocktail o che vede una proiezione in anteprima del suo film, possa essere più interessante di una riflessione meditata su un titolo o su una serie. Ovviamente chi scrive dimostra tutta la sua età e il tempo passato, un po’ come il cavallo di Viale Mazzini che nitrisce morente di fronte alla portineria della più grande società di produzione culturale italiana, anche questi risultano essere nitriti di terrore dinanzi alla celebrazione della medietà al potere, dell’accesso ai talent consentito al primo o alla prima che passano e che possono sminuzzare questo racconto audiovisivo in post, tweet e storie da condividere con “quel pubblico che i giornalisti non riescono a raggiungere”…
È così che la mente si obnubila dinanzi alla nuova agenzia dedicata ai Social Media, Harpoon, che motiva il suo successo sul fatto che anziché dedicarsi a tanti grandi influencers puntano a tantissimi microinfluencers… Insomma il distillato del passaparola rispetto al clamore mediatico. Comunicazione a 360 gradi rispetto ai media tradizionali, che sul cinema – e come ti sbagli – risulterebbero essere morti e defunti sebbene, meno male, qualcuno la veda diversamente e spieghi come il marketing basato sugli influencer non sia il modello unico, ma che è nato dalla necessità di “mancanza” di copertura rispetto a titoli che altrimenti non hanno alcuna comunicazione. Non c’è o non ci sarebbe rivalità con il giornalismo se non fosse che i Social Media possono rivelarsi molto utili per raccontare quello che ai grandi media “sfugge”.
Una tesi suggestiva, sebbene, talora smentita dai fatti che invece getta le fondamenta per una riflessione più interessante e sofisticata, legata al fatto che tra gli influencers ci sono anche persone del settore, che pur non essendo giornalisti possono, come è sempre stato peraltro, dire cose intelligenti e anche talora discutibili a partire non dall’opinione, bensì dalla loro formazione ed esperienza. Ed è questo l’elemento che lascia ben sperare: esercenti, studiosi, studenti, donne e uomini provenienti dalla comunicazione possono esprimere il loro giudizio su un film o una serie a partire dal loro lavoro quotidiano, magari, come è successo recentemente a proposito della polemica sugli Oscar e sul discorso di Jonathan Glazer, portando a testimonianza tesi e clip con dichiarazioni provenienti dal passato. Questo è certamente molto interessante ed importante: il racconto audiovisivo in un agone pubblico che a dispetto di gente prezzolata, valorizza il dialogo attraverso persone che, però, qualche competenza ce l’hanno e che possano anche sfuggire alla “tentazione” di lasciarsi manipolare da chi quel film o quella serie li vuole (e li deve) vendere al pubblico.
La realtà vera è che, alla fine, e lo abbiamo visto accadere molte volte in questi primi mesi di cinema in Italia, alcuni titoli che in passato avrebbero potuto avere una minore penetrazione del passato, hanno invece conquistato il pubblico. Ovviamente parliamo del successo di C’è ancora domani, ma anche di film come quello di Wim Wenders, Perfect Days, e di Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone, che distribuiti da Lucky Red hanno beneficiato di un passaparola giustamente molto positivo, sostenuto dai Social Media. Quindi alla fine a vincere non sono solo i cocktail, i red carpet, le interviste “sceme” dove l’intervistatore si sente tanto star quanto l’intervistato, bensì è sempre e soltanto il film con buona pace dei bei titoli che – purtroppo – non ce la fanno, casi in cui la comunicazione doveva e poteva fare meglio.
Detto questo, però, alla fine la speranza è che a vincere sia sempre la qualità delle opere e del loro racconto, perché altrimenti ci troveremo dinanzi a qualcosa di macabro e morboso come chi scatta dei selfie dinanzi ai corpi delle vittime degli incidenti stradali, anziché capire come si potevano evitare le cause di tanto dolore. Perché il lavoro di tanti cineasti, attori, attrici e tecnici, in fondo, merita, nel bene e nel male, un’attenzione e una cura nel racconto del loro mestiere che tenga conto degli sforzi e dell’impegno. Qualcosa che non può essere ridotto ad un post, ad una battuta, ad un racconto di un minuto forse prezzolato, forse, persino gratis, in nome della gloria e del poter dire “io c’ero”…