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Oppenheimer © Universal Studios
Come si articola un’ambizione, quando si può dire ambiziosa una persona, una figura, la sua vita, le sue azioni, le sue scelte?
Nel caso di Robert Oppenheimer, la sua traiettoria professionale, perfettamente resa dal film di Christopher Nolan, restituisce le pieghe e i chiaroscuri di uno straordinario talento di scienziato: mostrando tuttavia, tra le altre cose, la contraddizione di un’ambizione che non viene enunciata come tale, nemmeno da lui a sé stesso. Il crescendo è quello di un progetto che si delinea e agisce da solo, quasi, perché lui, Oppenheimer, in un certo senso dalla propria ambizione è agito, pilotato. Il fuoco del sapere lo muove, le menti brillanti di alcuni tra i suoi collaboratori alimentano e fanno divampare quel fuoco: ma sino a che punto l’uomo Oppenheimer è razionalmente consapevole delle conseguenze delle sue ricerche, e della immane, terribile, definitiva notorietà che quelle conseguenze getteranno con un fascio di luce nera sulla sua persona?
Può ancora dirsi ambizioso, l’uomo Robert Oppenheimer, quando il più totale sconvolgimento e pentimento si impadroniscono di lui, e il rimorso lo afferra, dopo che quella bomba atomica da lui e dai suoi collaboratori inventata e costruita è stata infine gettata, seminando morte e distruzione, e marcando uno scarto distruttivo irreversibile per l’intera storia dell’umanità? L’ambizione non presuppone forse una coscienza nitida, una concreta consapevolezza di volersi spingere sino a un determinato punto, ottenendo risultati e così raggiungendo l’apice di un sogno, di un progetto, di un desiderio in precedenza formulato?
Il film di Nolan con sapienza non risponde del tutto alla domanda se Oppenheimer possa dirsi o meno ambizioso, perché è la stessa vita di Oppenheimer a non dare risposta e a non risolvere la questione. Certo lui – lo racconta la magistrale interpretazione che del suo personaggio sa dare Cillian Murphy, con impressionante mimetismo e massima somiglianza anche somatica – ambizione ne aveva eccome, e una brama di onnipotenza pertiene alle sue scoperte scientifiche così come alla sua parabola professionale, in particolare quando diventa capo della struttura di Los Alamos di cui è stato l’artefice.
Ma dopo che il gioco si fa più grande di lui, e lui dopo avere ingenuamente pensato che la stessa Los Alamos a esperimento finito sarebbe stata chiusa, capisce invece che non accadrà, che tutto quanto è stato lui a imbastire e costruire continuerà, quell’atroce congegno atomico sarà inscritto nelle trame della Storia di lì in avanti per sempre, quando sopravviene la presa d’atto che l’ecatombe di vite e cose spezzate per sempre sarà associata alla sua persona, sua filiazione (“ora sono Morte, distruttore di mondi” mormora, nel film come pare sia stato nella vita reale, costernato quanto acceso dall’ubris citando le parole della Bhagavad Gita) allora Robert Oppenheimer è ancora ambizioso? E riguardando all’indietro, lo è stato?
L’ambizione è una linea retta: non conosce, in teoria, ambiguità, cambi di percorso. Aspirazione, desiderio, progetto, suo esito o suo fallimento. Sogni realizzati, o andati in frantumi. Qui invece tutto è umbratile, sottile, controverso. In modo analogo, con altrettanta metamorfica architettura “in progress”, un’ambizione può cambiare di segno, di direzione.
L’attimo forse più commovente dell’interpretazione di Seydou Sarr, straordinario protagonista di Io capitano di Matteo Garrone, è nel finale. Sul barcone stipato di persone che lui ha guidato combattendo la fatica, la paura, l’inesperienza, il sonno, ora che la costa siciliana è all’orizzonte e l’elicottero della Guardia Costiera segue dall’alto, il ragazzo può cedere alla fierezza di quella che è diventato inatteso realizzarsi di un’ambizione aggiuntiva. Il progetto era raggiungere l’Italia, ma lui suo malgrado di parte del viaggio è stato capitano, nocchiero di anime e corpi in pericolo, traghettatore.
Capitano che con ogni fibra ha preservato la vita di tutti – ha soccorso una donna aiutandola a mettere al mondo il suo bambino, ha ridato ossigeno agli uomini che a sua insaputa pur di partire si erano nascosti nella sala motori, per l’intera tratta di mare, mentre timonava, ha sostenuto il suo grande amico gravemente ferito. Ha creduto in modo incrollabile che la vita avrebbe vinto, e adesso che la sua speranza e la sua fede gli hanno dato ragione, affiora alle sue labbra quel “Io capitano”.
Ambizione retrospettiva, presa d’atto di una responsabilità dominata con ininterrotta presenza mentale e fisica. Dopo furti, inganni, soprusi, torture, infinito dolore, realizzare il desiderio è di quel desiderio diventare il padrone. L’ambizione è una linea retta: eppure le sue digressioni, le svolte inattese e i cambi di percorso, nel male e nel bene la rinforzano e la ridefiniscono. A posteriori la vita rimodella le ambizioni, dà loro forma, intanto dando forma alla vita stessa.