PHOTO
Orlando
C’è un particolare sguardo, opaco, un po’ assente, venato di ombre, che è degli anziani quando sentono la vecchiaia incombere; quando tra i sussurri il declino palesa la sua venuta e quell’annuncio fa chiudere in sé stesso chi invecchia, lo porta a essere meno presente, più distaccato, anche dai propri cari.
Nel corso di una festa in una casa di riposo, mentre i degenti anziani vengono intrattenuti da mattatori d’occasione, quello sguardo una bambina lo vede in suo nonno. La madre ha portato la bambina con sé, e se lei come giovane donna e figlia del vecchio fatica moltissimo ad accettare la demenza del padre, la bambina invece, da nipote, un po’ interdetta accoglie quella opacità, quell’esserci senza esserci del nonno divenuto flebile, smarrito: così distante.
Un bel mattino di Mia Hansen-Løve descrive tra le varie traiettorie di relazione anche questa: la linea d’affetto tra un nonno che ha perso la memoria (era un professore lucido e coltissimo, ora non sa più chi è, né chi siano i suoi familiari) e la nipote. La piccola è una bambina già costretta a troppe prove per la sua tenera età – la perdita del padre, la ricerca di vitalità e di vita della madre (una smagliante Léa Sédoux). Con tenacia infantile la bambina reagisce come può, testarda, poco mansueta, e tutto il suo smarrimento lo condensa in quello sguardo pietoso posato sul nonno.
Sguardo senza giudizi, sgombro dell’angoscia con cui invece sua madre e gli altri adulti assistono alla progressiva demenza senile dell’uomo, figura amabile e mite, ma anche svanita e irriconoscibile. Accade che nonni e nipoti si incontrino, e se pure su un terreno discostato dalla realtà “normale” trovino un dialogo, svincolato dall’anagrafe e che tuttavia fa i conti con il tempo, perché nel tempo si svolge, si sviluppa e vive.
Anche il protagonista di Orlando di Daniele Vicari è un uomo anziano che da una consistente parte della propria esistenza ha preso le distanze. Contadino di una campagna del centro Italia (un Michele Placido tanto credibile da farci dubitare sia un attore), ha litigato con il figlio molti anni prima, perché quel figlio dalla stessa vita contadina ha voluto fuggire, emigrare, e lui da padre all’antica e legato alle proprie antiche radici non lo ha ammesso.
Ma ecco il figlio lontano si è ammalato all’improvviso, l’anziano padre compiuta stessa tratta verso il Nord nemmeno fa in tempo a salutarlo; in una Bruxelles gelida e incomprensibile per i suoi occhi stanchi e inesperti, eccolo catapultato in una relazione subito non facile con una nipotina che neppure sapeva di avere: eccolo nonno.
Daniele Vicari è bravissimo a sviscerare dinamiche psicologiche sottili come quelle che scattano nella convivenza che incomincia tra i due. Lui, il vecchio, vorrebbe tornare ai suoi campi, ai suoi animali, nel mentre la ragazzina sta abbrancata alla vita in Belgio che suo padre amava e che le ha insegnato a vivere, allevandola da unico genitore.
Si guatano, nonno e nipote, guardinghi e un po’ timorosi, ciascuno limite per l’altro, ma anche ciascuno per l’altro possibilità di attraversare e sciogliere un lutto aspro, quella perdita che li ha lasciati soli nella stessa voragine di vuoto, costretti ad amarsi ma sprovvisti di alfabeto (non è quello linguistico a mancare, dato che la ragazzina bilingue parla un fluentissimo italiano, bensì l’alfabeto dei sentimenti).
La vecchiaia del nonno lo porta a ricordare, rimestare nel passato fatto di strappi e silenzi e così poter aprire il suo cuore schermato da strati di ruggine. Conoscere la sfida di imparare un nuovo mondo straniero, le fatiche di un nuovo lavoro, di una nuova lingua, e fare tutto ciò sempre invisibilmente guidato dalla mano sicura della sua nipotina.
Lei anche inasprita dagli sforzi, il dover crescere da sola trovando la strada per amare il ruvido, incomprensibile nonno che il doloroso destino le ha messo accanto, una figura che lei vuole e non vuole, dal quale desidera e non desidera venire amata. Quando infine si trovano, e l’afasia e i balbettii del loro affetto goffo trovano come sciogliersi in un abbraccio, non perciò i chiaroscuri e le ambivalenze della loro relazione cessano del tutto.
Il nonno resta un enigma, mentalmente lucido e non appannato come l’anziano del film di Mia Hansen-Løve, ma lui anche sempre più chiuso in sé, trincerato in quella zona di confine di chi la vita incomincia a guardarla da un punto di distanza, perché troppe sono le memorie, troppi i dispiaceri e in questo caso, per Orlando, gli affanni e le paure, per non stringere la manina di una nipote in realtà amatissima con un tremito che dice un gran bisogno di riposo, un anelito profondo a una pace che si sente arrivare e di cui via via sempre più si ha bisogno e desiderio.