I suoni guidano Jessica (Tilda Swinton) nel film Memoria di Apichatpong Weerasethakul. Un suono in particolare, sconosciuto, potente, difficile per lei da descrivere, e da ripetere e da riprodurre nonostante l’aiuto di un ingegnere fonico.

È un suono che arriva da lontano, un boato antico la cui eco all’orecchio della donna risulta acuta, penetrante, perturbante: perché quella sonorità che ha preso a ossessionarla, indecifrabile, è anche un richiamo misterioso che la aiuta a “fare casa”, a trovare un proprio posto in un mondo altrimenti straniero.

Come un tonfo, metallico, il sussulto che le rimbomba nelle orecchie paradossalmente funziona da bussola nel contesto incomprensibile sino alla distopia per i suoi occhi di estranea straniera. Il mondo intorno è Bogotà, la Colombia raccontata con nitida poesia dal thailandese Weerasethakul secondo un’estetica straniata che è la sua cifra, il suo sguardo cosmopolita di regista, riverberato su quello della grande Tilda Swinton che nella storia è una giovane scozzese, esperta di orchidee, giunta in Colombia per visitare la sorella malata.

“Sto impazzendo” confida all’archeologa divenuta amica (Jeanne Balibar): di lì, da quella confessione, tutto assume tinte di realismo magico per una strana distopia psicologica, in un paesaggio di montagne, nuvole, gole profonde, foreste che sono selve di enigmi e di segreti, nel mentre l’eco insiste a richiamare la donna e nello stesso tempo, stranissimamente, la orienta.

Decifrare quel suono è imperativo, un’urgenza cui lei non può sottrarsi. Per capire e dopo ciò, sentire: diventando via via più empatica, capace di sintonizzarsi con i pensieri degli altri e con i loro ricordi, di sentirli e assorbirli facendoli propri. Così l’empatia diventa la sua nuova identità. Il richiamo sonoro l’ha trasformata, come ogni richiamo interiore che segni nell’esistenza una svolta, un ricalibraggio, un nuovo orientamento.

Di richiami interiori è disseminato Settembre di Giulia Steigerwalt, lei anche cosmopolita (attrice e regista statunitense ma che lavora in Italia). In ciascuno dei personaggi del film tuona un richiamo. Per una donna incagliata in un matrimonio stanco, il richiamo di una storia d’amore in tutti i sensi nuova che possa ridarle gioia dopo un falso allarme oncologico; per il figlio di lei, il richiamo di una fisicità felice dopo la goffa strada in salita di un’educazione sessuale “artefatta” e impartita per interposta persona.

Fabrizio Bentivoglio e Barbara Ronchi © Francesca Fago
Fabrizio Bentivoglio e Barbara Ronchi © Francesca Fago
Fabrizio Bentivoglio e Barbara Ronchi © Francesca Fago

Per una giovane straniera presa da un giro di prostituzione che è agli antipodi della sua anima curiosa e felice, il richiamo di un innamoramento che la fa ricominciare tutto da zero, da capo. Per un uomo maturo e disilluso e annoiato e stanco (Fabrizio Bentivoglio) il richiamo ad andare oltre sé stesso per finalmente dare, regalare, offrire. Tutto converge risolvendosi nella forza dei richiami. Punti di svolta personali che si definiscono, irrompono e rendono empatici e attenti al mondo esterno come prima non si era.

Pronti ad ascoltare, come accade a Jessica/Tilda Swinton, che con la potenza del suo ineffabile sorriso, con tutta la levatura del suo enigma, interdetta ma attentissima sta in ascolto. Non solo in ascolto del “suo” suono, quello che maniacalmente la insegue (in una scena assurda e potente addirittura la vediamo chinarsi, l’orecchio teso verso l’acqua di un ruscello, il corpo storto pur di raggiungere la superficie per poi subito dopo sobbalzare e rimbalzare ai rintocchi fragorosi del suono misterioso).

Anche la strana donna in viaggio sta in ascolto delle storie degli altri, sulla scorta di quel suono che potente la abita e la richiama rendendola medianicamente capace di raggiunge le altrui infanzie, e i desideri, e le aspettative di chi è altro da lei. Già, perché un richiamo così agisce: chiede, a chi sia capace di avvertirlo, massima concentrazione sulla propria sonorità, sul senso del suo messaggio, ma anche genera una nuova centratura, un senso di sé stessi diverso, mai stato prima, che a un tratto fa capaci di ascoltare meglio tutti i suoni, e le storie.

L’udito si acuisce e libera: nell’istante in cui impariamo ad ascoltare gli altri e ci liberiamo dall’ossessione su noi stessi, conosciamo quel sano oblio di noi che ci rende infine adulti e umani. Ascoltando i richiami siamo meno egoisti, meno miopi. Il suono ascoltato dalla protagonista di Memoria è chiave d’accesso a un viaggio che si direbbe quasi psicomagico, spazio-temporale, una parabola mnemonica che attraversa le epoche sino a stabilire un dialogo tra la vita e la morte, tra le voci e il silenzio.

Nei singoli richiami i protagonisti di Settembre trovano ognuno un’epifania, una ripartenza. Gli echi chiedono risposte, e queste a loro volta contengono nella loro stessa etimologia il senso delle responsabilità. Responsabili di sé stessi e del mondo. All’altezza dell’eco di quel che ci richiama, e di lì pronti ad aprirci agli altri, per crescere e cambiare.