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Phoebe Waller-Bridge e Harrison Ford @2022 Lucasfilm Ltd. & TM.
C’è qualcosa di vertiginoso e trascinante nella assurda (ma così convincente, come talvolta l’assurdo sa essere) scena finale di Indiana Jones e il quadrante del destino. Vertiginoso Harrison Ford quando si rivolge implorante alla “figlioccia” Phoebe Waller-Bridge (di una bellezza androgina, e di cui il vecchio “Indi” tutto lascia credere sia incestuosamente innamorato) per chiederle di lasciarlo restare lì dove si trovano. “Lì” è nientemeno che la Siracusa dei tempi della battaglia contro gli Ateniesi (415 a.C.); e mentre la prega, sullo sfondo si stende un cielo diurno traversato dalle frecce di una guerra navale in pirotecnico contrasto con la temperie del film. Così, dopo due ore di avventure e disavventure in febbrile successione, quel viaggio all’indietro, fulmineo e fulminante nel suo proiettarsi lontanissimo all’indietro, persuade, e nella Siracusa di secoli e secoli fa anche lo spettatore ecco è come lui anche ci fosse.
In forma di prefigurazione e anticipazione, in un mercato a Tangeri, Indiana Jones ha guidato in retromarcia un furgoncino supersonico, e nella manovra spericolata e invertita ha trovato ennesima “exit strategy”, una volta in più scampando al pericolo e salvando figlioccia e ragazzino che inseparabili sono al suo seguito, sodali amici pronti a seguirlo in ogni indietro o avanti nel tempo e nello spazio. Indietro ci si salva. Andando indietro, pensando all’indietro, nella mente, trovando dimora in un “indietro” che assolve il presente proiettandolo dietro, alle proprie spalle, e di lì lasciando che riverberi la sua luce verso avanti. “Lasciami qui” implora Indiana Jones, nello sguardo una tenerezza assurda eppure verosimile; e se anche la sua preghiera non verrà esaudita, già il solo formularla è nemesi, è rinascita, è nuovo affrontare l’inesorabile incombere della vecchiaia e scorrere del tempo. Resto indietro, voglio restarci, è come dicesse “Indi”, perché è all’indietro che si trova e si ritrova la chiave di tutto. Indietro sta annidata la salvezza, là agisce il pensiero che rivede, riconsidera, redime per come riformula le cose.
The Whale, il film di Darren Aronofsky, non ha nel titolo soltanto la geniale doppia eco di “balena” riferita alla stazza del protagonista, né il solo riecheggiare Moby Dick, libro dallo stesso protagonista amato, divulgato e insegnato (alla figlia per prima, quand’era più piccola ma già da lui dolorosamente distante). The Whale, anche, è allusione al pachiderma della memoria: racconta l’enorme peso del passato, di quanto è rimasto indietro, non metabolizzato, non accettato a fondo in tutto il suo peso, peso che significa l’ingombro di un grande portato di dolore ma anche l’incompiutezza, il non totale essersi dispiegato (spiegato). Annaspa ingolla vomita e intanto galoppa indietro con il pensiero il professore obeso, lo strepitoso attore quanto straziante personaggio Brendan Fraser/Charlie.
In una corsa convulsa eppure calibratissima perché modulata sulle drammatiche istanze del suo presente, la sua mente cerca all’indietro e si sovviene, ricorda ogni cosa, l’amore, la perdita, la fuga dalle responsabilità, il ripiegarsi su un lavoro autentico ma solo in parte (insegna letteratura online, lasciando indietro, ovvero nascosto, il suo volto e il suo corpo imbolsiti per chili e chili di troppo). E nello stesso momento, mentre si volge all’indietro così, il corpo gonfio e grasso sino all’inverosimile lo tradisce, lo impedisce, lo intristisce sino a condurlo a voler morire. Non lui soltanto va indietro, non è isolato nel suo impellente bisogno di camminare “à rebours”. Anche, vanno all’indietro tutti quanto gli sono intorno, gravitando attorno alla sua casa/tana, là dove si consumano gli ultimi giorni della sua vita.
Ciascuno fa i conti con un proprio “indietro”, ciascuno il suo. L’infermiera asiatica che si prodiga per accompagnarlo nel disagio estremo, con la sua storia di figlia adottata e le sue parentele acquisite che la legano indissolubilmente a lui, il professore “balena”. L’ex moglie di lui, una donna il cui “indietro” è un grumo di amarezza mai espressa né gridata, mai davvero, mai completamente. Un ragazzino che arriva per caso, bussa alla porta in un ennesimo pomeriggio di pioggia, e parrebbe un adepto di una setta evangelica, eppure qualcuno il cui “indietro” si rivela poi tutto diverso. Indietro portano le foto incorniciate su tavoli e scaffali della casa/tana, indietro viene strattonata quasi a forza dal padre morente la figlia del protagonista – lei che vorrebbe non pensare a nulla, o piuttosto non sondare nessun indietro, solo tirarsi via, mordere e aggredire chiunque ostacoli il suo cammino di rabbia e disamore. Indietro è la salvezza. Indietro si vorrebbe restare, perché indietro si muore con dignità, guardando avanti.