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“Verso” ovvero direzione, traiettoria, vettore. “Verso” nel senso di confine che delimita e separa un lato da un altro: anche la realtà dalla finzione. “Metaverso” in linguaggio contemporaneo, limite che costringe a interrogarsi di continuo su cosa sia realtà e cosa invece la sua raffigurazione fantastica. Cosa quel che sappiamo concretamente, il mondo per come lo vediamo, e invece tutto quanto pertiene alla nostra immaginazione.
“Verso”, anche, è linea che definisce rapporti, schemi di relazione. Tra i bambini interpellati e stimolati da Sophie Chiarello nel documentario Il cerchio, c’è anche, ricorrente e molto toccante, il loro districare realtà e immaginazione nel tentativo di orientarsi tra le due dimensioni. A tratti questi bambini di una scuola elementare di Roma sviscerano e si fanno domande su quanto ci sia di vero dell’esistenza di Babbo Natale, di Gesù e il Diavolo; altre volte si interrogano e discettano sulla ipotetica verità dei personaggi di Star Wars, o sui rapporti tra vampiri e supereroi, e quant’altro campeggia nelle loro fantasie.
Quale sia il tema discusso seduti in cerchio, sempre con meraviglioso candore e intelligenza quei bambini filmati da Sophie Chiarello traggono linfa dal loro stesso interrogarsi, riflettere, farsi domande e cercare a loro modo di capire. Molto discreta, abile e capace di seguirli e interpellarli, la regista non commenta i loro incantevoli ragionamenti infantili, solo li assorbe, li riporta, li documenta.
Il verso della loro relazione è bidirezionato, è scambio vero, autentico ascoltare di lei, vero confidarsi e aprirsi da parte dei bambini. Il “verso” qui è il cerchio, e proprio perché sempre in contatto con le loro fantasie, i bambini stanno immersi nella realtà, sprizzano realtà. Sprizzano vita, perché testimoni di quanto l’infanzia, anche, sia osmosi quotidiana tra realtà e fantasia.
Il documentario lo racconta in modo limpido, corale, intelligente secondo quell’intelligenza del cuore che è necessaria (e rara) per accostarsi all’infanzia. “Verso”, portato all’estremo, diventa direzione impazzita, entropica, e il metaverso entro cui spazia tutta la vicenda di Everything Everywhere All at Once, Oscar a firma di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, proprio nella confusione pluridirezionata del “verso” trova chiave narrativa. A venire messa in scena è una simultaneità senza scansione tra passato futuro presente, un assemblarsi brutalmente caotico non solo di tempi, anche di modi, ruoli, figure, forme di comunicazione.
Tutto va in ogni verso, non fosse che il solo nucleo emotivo davvero autentico della vicenda, il rapporto tra una madre appesantita da molte responsabilità e ruoli e la sua unica figlia che aggiunge all’identità di lesbica un’indole difficile, questo dialogo mancato tra due donne diverse per anagrafe e carattere, finisce col divenire il tratto più nitido, assumendo contorni più leggibili e riconoscibili dei molti astrusi pirotecnici vagabondaggi tra spazio e tempo, realtà e sua fantasmagoria, violenza fisica e sua ridicolizzazione che attraversano tutto il film.
Tra colpi di scena e altrettanto strabilianti superpoteri, sconvolgenti metamorfosi di personalità, effetti visivi la cui forza e violenza risucchia i personaggi come se per tutto il tempo vorticassero nel mulinare di una centrifuga, quel che alla fine conta davvero è’ il “verso” della realtà. La direzione che le cose prendono quando accadono, e nel loro succedere, sgombrano il campo da qualsiasi mistificazione.
Eppure, sembra, perché le cose prendano il giusto verso (così nel finale semi-felice di Everything Everywhere All at Once) le stesse cose devono prima alterarsi in un metaverso che le confonde, le sovrappone, e mescolandole in modo dissennato inconsapevolmente invece le rimette in ordine.
Qualcosa di analogo a quanto accade in ogni crescita, in ogni progressivo congedo dall’infanzia, quando districando man mano il reale dal fantasticato, i tasselli di una vita se pure tra dolori e delusioni si vanno a comporre, si mettono per il verso giusto, come che sia trovano il loro verso. In tempi di fitte discussioni su limiti e poteri da attribuire al metaverso, queste storie che trovano nella concretezza del dispiegarsi il loro verso sono un’ancora, un’indicazione.
Lo raccontano i meravigliosi sorrisi dei bambini de Il cerchio, lo racconta nel fondo il film vincitore dell’ultimo Oscar. Dietro ogni consapevolezza c’è un lungo districare il vero dall’immaginato, l’oscillazione tra i rispettivi piani di realtà. È allora, dopo quel confuso ma progressivo fare ordine, che le cose nascono: non prima.