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Ritorno a Seoul
Si ricompone, uno strappo? I lembi lacerati possono trovare modo di tornare a riunirsi, le ferite a suturarsi, rimarginare la lacerazione che lo strappo ha provocato? Chi è stato strappato, e a partire da quello ha dovuto, giocoforza, impostare la sua nuova identità, la propria esistenza, l’intera sua natura, può conoscere la nemesi della ricomposizione? Edgardo Mortara, il protagonista della vicenda realmente accaduta da cui Marco Bellocchio ha tratto il suo Rapito, costruisce tutta la sua vita incuneandola in una dimensione che resta all’infinito transitoria. Tutto è “tra”, per lui.
Bambino prima, poi giovane uomo, sempre uno dei pesi che dovrà portare su di sé è quello di vivere tra due mondi, due realtà che corrispondono per lui a due appartenenze esistenziali, prima ancora che religiose. L’identità di ebreo, che è la sua di nascita, e l’identità di cattolico che si trova a dover inglobare e obbligatoriamente far propria, la stessa che poi sceglierà di non abbandonare. Quei due mondi lo abitano, intrecciati, antitetici, vissuti con un’ambivalenza che diviene quella pure lacerante, un ulteriore successivo strappo.
Strappato ai genitori, tirato via dalle braccia del padre e dal fortissimo inconsolabile amore di sua madre, da allora e per tutta la vita Edgardo Mortara patisce l’acuta nostalgia del mondo di provenienza, nel mentre, in parallelo, conosce l’altro lato dello strappo, la realtà in cui si trova a crescere, quella dottrinale cattolica in cui per volere del papa (Pio IX) dovrà formarsi, e poi per sempre vivrà. La contraddizione radicale cui Mortara è consegnato non smette di abitarlo, e come ogni strappo, una forma di dissociazione carsicamente prende a pulsargli dentro. Quando, ormai adulto, infine rivede la madre che sta per morire, tenta di benedirla secondo il dogma che è diventato il suo. I moti aggressivi (verso la figura dello stesso Papa) non bastano a farlo tornare indietro: senza soluzioni possibili, Edgardo Mortara va incontro al suo destino di “strappato”.
Un destino non così diverso da quello della protagonista di Ritorno a Seoul di Davy Chou (questo anche, ispirato a una storia vera), interpretata dalla potente Park Ji-min. Qui lo strappo scaturisce da una storia di adozione: ancora piccolissima, la bambina Freddie dalla Corea del Sud è stata portata in Francia, e ora, giovane donna, torna a Seoul sulle tracce di sé stessa, prima ancora che su quelle dei suoi genitori biologici. Lei anche è una “strappata”: il tormento, l’inquietudine, l’aggressività compressa qui pure sono evidenti, così come trascinante la vividezza con cui sono descritti.
Nello strappo che Freddie vive e rivive, nessuno dei genitori è davvero vicino: non più quelli adottivi (la madre francese, allarmata e un po’ algida nella breve conversazione di una videochiamata), non quelli biologici ritrovati, il padre impetuoso e distruttivo, la madre irraggiungibile, sfuggente e sempre lontana, a rendere più acuta ancora la ferita dello strappo.
Gli “strappati” conoscono la frattura e la fatica di un vivere “tra”. Tra i due mondi, di origine e di approdo, ma anche tra i due lembi della loro personalità, due parti che sempre coesistono dentro e rendono queste figure, nel dialogo con loro stesse che è poi il loro dialogo con il mondo, all’infinito scisse. L’aggressività di Edgardo Mortara adulto dice tutta la sua frustrazione: è inutile moto di rivalsa nei confronti del danno indelebile dello strappo di cui è stato vittima. La tempestosa nuova vita in Corea della bella Freddie, sfrontata, provocante, sempre sul crinale esilissimo che separa l’auto-individuazione dalla distruttività quando si ha alle spalle una storia di strappo, quella anche dice la lava infuocata di una rabbia frustrata, a sua volta, copertura di un dolore che non troverà consolazione mai.
Nessuno strappo si ricompone, la sua azione ogni volta è dar forma a esistenze ibride, destinate a quel vivere “tra” che è ricchezza esistenziale, oltre che implosione e malinconia. Dalla vicenda di entrambe queste storie “strappate”, come spettatori riemergiamo toccati e pieni di domande.
Cosa sopravvive alla impossibilità di rimarginare uno strappo? Non c’è pacificazione, l’ambivalenza pulsa la propria complessità, all’infinito. I lembi delle ferite di ogni strappo non si ricompongono, mai o quasi mai. Conta la natura nuova che nasce e cresce dalla lacerazione. Contano le storie incandescenti che a partire dagli strappi incominciano, si sviluppano, misteriose e potenti come solo lo sono le domande che restano sempre aperte, sempre affacciate sul “tra”. “Tra” i mondi dei due lembi di una ferita: lì è la vita degli “strappati”.