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Juliette Binoche in Tra due mondi © Christine Tamalet
Cosa è proprio? Al proprio figlio, un ragazzino di undici anni che sino a un attimo prima sul sedile posteriore di una macchina inerpicata sulle montagne della Tunisia al confine con la Libia cantava felice con suo padre e sua madre, di ritorno da un lungo weekend, succede di ricevere in pieno stomaco fucilate di un attacco terroristico che si è scatenato improvviso pochi metri più in là, su una curva della strada. Sincronia fatale e terribile.
La corsa in ospedale, il fegato del ragazzino è a brandelli, l’urgenza di trovare un donatore con il cui altro fegato tentare un trapianto. Un figlio del tunisino Mehdi Barsaoui riflette su cosa sia proprio. Perché nell’essere genitori certo il possesso dei propri figli è autentico, luminoso d’amore, ma che succede quando quel possesso viene drammaticamente messo in discussione? Il figlio è proprio, ma fino a che punto?
“Proprio” del donatore, ovvero suo, è l’organo con cui effettuare il trapianto, secondo una mappatura dove la genetica si scontra con la legge, i sentimenti cozzano con le possibilità, l’emergenza stravolge la vita disseminandola di morte incombente. Perché se il figlio non è proprio allora tutto salta, il passato così come il futuro appeso al filo di un’operazione chirurgica che il senso simbolico nulla può suturare dato che già si è ribaltato tutto. Nel dolore, sono la proprietà e il senso del possesso a venire messi in discussione, mostrati nella loro fallibilità, nelle faglie di dispossessamento e successiva possibile riappropriazione che spalancano.


Un figlio
“Proprio” è anche il proprio lavoro, pensato come dominio umano oltre che professionale, come contesto, area circoscritta dalle stesse competenze e valori che a sua volta definisce. Ispirandosi a un libro-inchiesta della giornalista Florence Aubenas che molto ha fatto parlare di sé in Francia, lo scrittore Emmanuel Carrère firma da regista un film (Tra due mondi) che è vicenda di disappropriazione e appropriazione insieme. Dove una scrittrice già famosa (Juliette Binoche) decide di mimetizzarsi e diventare donna delle pulizie per raccontare il mondo del lavoro umile, lavoro di fatica, le sue ingiustizie contrattuali, sindacali, sociali, politiche.
Non fosse che il suo camuffamento finisce col venire scoperto, e il terremoto psicologico che ne deriva mette in luce la portata amorale del suo tradimento. Esulando da ciò che le era proprio, la scrittrice ha tradito abusando in modo improprio sia di quel che le era proprio, sia di ciò che non lo era.
Al di là del valore di denuncia del libro-inchiesta che sarà frutto di tale “tradimento” (un successo editoriale, facile immaginarlo), il suo appropriarsi di quanto non era suo proprio coincide con una disappropriazione: pur di scrivere quel reportage ha abbandonato la sua etica narrativa, e quindi indirettamente sé stessa. E tuttavia, il suo camuffarsi per vivere nelle pieghe dello sfruttamento da lavoro le permette una disappropriazione di tante maschere sociali e personali. Trova nel terziario una umanità calda, attenta, che la commuove e la cambia.
In Un figlio, per il padre che scopre di non essere padre biologico nel momento in cui si tratta di salvare la vita al ragazzino che sino a quel momento era convinto fosse suo figlio, la consapevolezza retrospettiva del tradimento di cui si sente vittima è occasione per contattare un modo più profondo di essere padre, molla scatenante di un processo interiore di metamorfosi dal valore reso ancor più prezioso dato il contesto ipermaschilista della Tunisia di oggi.
Proprio perché sente la propria paternità depredata, qualcosa di cui è stato improvvisamente e in maniera sconvolgente disappropriato, ciò di cui quel padre si riappropria, in un simbolico viaggio a suo modo iniziatico, è della sua capacità di amare. Di provare sentimenti, esattamente come accade alla Marianne/Juliette Binoche/famosa scrittrice nei mesi trascorsi con donne di fatica, donne stravolte da quella fatica del lavoro, ma con una tenuta affettiva e morale solidissima.
Quanto non è proprio, ossia non ci pertiene per biologia, per censo, per destino, diventa occasione per appropriarsi di qualcosa di nuovo e che nel suo valore intimo finisce con l’essere profondamente proprio.
Ogni disappropriazione può essere un battesimo, una rinascita, quando se ne colga l’occasione di futura riappropriazione che contiene in sé.