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Sigourney Weaver in Alien
“Please, God, please, don’t let me be normal!”
(Ti prego, Dio, ti prego, non lasciarmi essere normale!)
Quando sceglie questa battuta (proveniente dal monologo di Luisa nel musical off-Broadway The Fantasticks) per accompagnare la propria foto sull’annuario scolastico, Sigourney Weaver non è ancora maggiorenne. Tuttavia, già da tempo ha messo in chiaro di non voler accettare passivamente le scelte altrui, rifiutato il proprio nome anagrafico (Susan, di cui odia soprattutto diminutivi come Sue o Suzie) e sostituendolo con quello della zia di Jordan Baker nel Grande Gatsby (Mrs. Sigourney Howard). “Ero così alta e Susan era un nome così breve” avrebbe spiegato in seguito. “Sigourney, invece, era lungo e sinuoso, con un suono musicale.”
All’epoca ancora non lo sa, ma il nome che ha scelto è maschile e appartiene al mentore di Francis Scott Fitzgerald, Padre Sigourney Fay. Nel rifiuto delle convenzioni, nella continua rimessa in discussione della propria identità e nell’assunzione di ruoli che, prima di lei, si credevano riservati solo agli uomini, risiedono sia l’importanza di Sigourney Weaver (nata l’8 ottobre 1949 a New York, da padre dirigente della NBC e madre attrice), sia le motivazioni del Leone d’oro alla carriera.
Un riconoscimento meritatissimo per un’interprete che di premi ne ha purtroppo presi pochi: due Saturn Awards (grazie ad altrettanti film di James Cameron, ossia Aliens – Scontro finale, 1986, e Avatar, 2009), un BAFTA (ottenuto con Tempesta di ghiaccio di Ang Lee, 1997) e due Golden Globes, vinti entrambi nel 1989 come miglior protagonista (per l’interpretazione della zoologa Dian Fossey in Gorilla nella nebbia di Michael Apted, 1988) e non protagonista (complice la temibile “boss” Katherine Parker in Una donna in carriera di Mike Nichols, 1988). Molto più numerosi, per fortuna, i registi che hanno saputo valorizzarne la caratura drammatica, il fascino androgino, l’appeal intellettuale, la forte autoironia e la presenza magnetica.
Agli autori già citati, vanno quindi aggiunti – almeno – Woody Allen (che la fa esordire in Io e Annie, 1977), Peter Yates (Uno scomodo testimone, 1981), Peter Weir (Un anno vissuto pericolosamente, 1982), Ivan Reitman (Ghostbusters – Acchiappafantasmi, 1984, Ghostbusters II, 1989, e Dave – Presidente per un giorno, 1993), David Fincher (Alien³, 1992) Roman Polański (La morte e la fanciulla, 1994), Jon Amiel (Copycat – Omicidi in serie, 1995), Jean-Pierre Jeunet (Alien – La clonazione, 1997) M. Night Shyamalan (The Village, 2004), Neill Blomkamp (Humandroid, 2015), Juan Antonio Bayona (Sette minuti dopo la mezzanotte, 2016), Walter Hill (Nemesi, 2016), Noah Baumbach (The Meyerowitz Stories, 2017) e Paul Schrader (Il maestro giardiniere, 2022).
No, non ci siamo scordati di Ridley Scott (che l’ha voluta pure regina di Spagna in 1492 – La conquista del paradiso, 1992, e d’Egitto in Exodus – Dei e re, 2014), ma il suo Alien (1979) merita un discorso a parte perché è da quel capolavoro, pietra miliare del terrore intergalattico, che non solo horror e fantascienza cambiano per sempre, ma “Sigourney, attrice teatrale” diventa “Sigourney, icona del grande schermo”. Calandosi nel ruolo del tenente Ripley (il cui nome proprio, Ellen, sarebbe arrivato poi con Aliens, insieme al suo lato più materno e protettivo), Weaver non si è limitata ad aprire una porta: l’ha sfondata portando a dubitare che sia mai esistita.
Terzo ufficiale dell’astronave cargo Nostromo, Ripley è l’unico membro dell’equipaggio a sfuggire (insieme al suo gatto Jonesy) alla furia del predatore extraterrestre, riuscendo a sconfiggerlo proprio quando sembra più indifesa, ovvero dopo essere rimasta in canottiera e mutandine per prepararsi al sonno criogenico. La sua capacità di sopravvivere e di non perdersi mai d’animo non ha nulla a che fare con il genere (sebbene il suo ruolo sia nato come maschile, occorre ricordare che Ripley non è l’unica donna a bordo), con la forza fisica, la dotazione bellica o l’esperienza sul campo, bensì con il sangue freddo, il raziocinio, la logica e la lucidità.
Certo, è atletica e combattiva, ma, senza la sua intelligenza e scaltrezza, allo scontro diretto con l’alieno non ci sarebbe mai arrivata. O almeno, non priva di un compagno destinato a toglierla dai guai. Dopo aver dimostrato che un altro tipo di personaggio femminile non solo è possibile, ma doveroso, Ripley è tornata in azione altre tre volte. Citando Marcello Garofalo, incarna “l’eroina demandata ad affrontare di petto il mostro, assecondandone la natura bestiale e inconscia, in una lotta che ha sempre le caratteristiche del gesto estremo, dell’ultima sfida. E Sigourney, con la mascella fremente e volitiva e lo sguardo di chi ha subito inenarrabili torti, si concede senza remore”.
Tutte le moderne primedonne del cinema d’azione, dalla Sarah Connor di Terminator alla Sposa di Kill Bill, dalla Trinity di Matrix alla Furiosa degli ultimi due capitoli di Mad Max, le devono rispetto e gratitudine. Il Leone d’Oro alla carriera diviene dunque (riportando le parole del Direttore della Mostra Alberto Barbera) “il doveroso riconoscimento a una star che ha saputo costruire ponti fra il cinema d’autore più sofisticato e i film che dialogano con il pubblico in forma schietta e originale, senza mai rinunciare a essere se stessa”. Difatti Sigourney, “dotata di un grande temperamento, capace di muoversi con delicatezza ma senza fragilità, ha imposto un’immagine di donna sicura e determinata, dinamica e tenace, non senza lasciar trapelare, con sfumature sempre diverse, una sensibilità femminile di intenso magnetismo”.
Nello spazio nessuno può sentirti urlare, recitava la tagline di Alien, ma sulla Terra tutti possono sentirci applaudire colei che ha dichiarato (e provato) che “non servono seno prosperoso, pantaloncini inguinali e pistola in pugno per essere una vera eroina”.