Cinematografo prosegue la riflessione su un fenomeno nuovo, ospitando il parere di autorevoli critici. Il terzo intervento.


Appena superato il confine del rullo di 14 metri di Lumière, dopo qualche anno il cinema provò l’ebbrezza di una durata infinita. Chi stabiliva, in fondo, che la misura aurea era quella del lungometraggio? (Io per esempio, anche dopo cent’anni in cui lo si è stabilito, gradisco in modo particolare i film che durano meno di un’ora e mezza).

Sfidare la gabbia del lungometraggio era la prima spia dei registi megalomani e geniali: Intolerance, Greed, Napoleon, L’orgoglio degli Amberson… In qualche caso, a Hollywood, il genio megalomane è stato poi un produttore, come il Selznick di Via col vento. Eppure è più curioso ancora un altro momento: la fine della Hollywood classica, quando a gonfiare i film non sono le ambizioni del regista, ma le metastasi del sistema.

Negli anni Sessanta, i film diventano improvvisamente più lunghi, più costosi, più pieni di star. Non solo i kolossal, i film biblici e di antichi romani (genere suicida per eccellenza), le decadenti trasferte a Cinecittà, le produzioni-truffa di Samuel Bronston nella Spagna franchista o gli ultimi peplum di De Laurentiis sulla Pontina (La Bibbia), ma un po’ tutti. Lunghissimi erano spesso i musical e i film di guerra (La grande fuga o My fair Lady, tutti sulle tre ore), le 3 ore e un quarto di Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo, omaggio alla comicità del muto con decine di camei illustri, le due e quaranta di La grande corsa, e i film dei vecchi maestri: Hatari! di Hawks dura 2 ore e 40, Il grande sentiero di Ford anche (poi fu leggermente tagliato), l’ultimo di Capra, Angeli con la pistola, due ore e un quarto, Irma la dolce o Topaz quasi due ore e mezza…

Intolerance
Intolerance

Intolerance

Nel frattempo i cast impazzivano (fino a picchi leggendari di follia come Agente 007 - Casino Royale diretto da sei registi e interpretato da Niven, Sellers, Allen, Welles, Andress, Bouchet…), i costi pure. A vederli oggi, sembrano i film di un cinema che agonizza a ogni film e non vuol morire. Infatti risorgerà grazie anche a una nuova generazione di attori, sceneggiatori e registi, e sarà adulto e vitale per meno di una decina d’anni. Ho ricordato questi precedenti perché ci vedo un parziale parallelismo col presente, se non l’altro per i suoi caratteri di angoscia di sistema e non d’autore.

Che il cinema d’autore sia più o meno lungo, mi pare meno significativo. C’è sempre stata una tentazione del cinema, specie quello sperimentale, ad andare fuori di sé, a espandersi nello spazio e nel tempo, oltre i bordi dell’inquadratura e prima e dopo i titoli di testa e di coda. E c’era il gesto di sfida, tipico dell’artista che lotta contro vincoli che sono industriali ma anche narrativi e di immaginario. C’erano appunto von Stroheim dentro Hollywood, e Andy Wahrol, con le 8 ore di Empire, fuori. Che un film di Lav Diaz duri cinque ore lo si capisce. Che a gonfiarsi nella durata sia anche il cinema spettacolare, invece, richiede una spiegazione di ordine estetico e sociologico che va oltre il testo. L’idea è che lo spettacolo contempli (nel doppio senso del verbo) anche la durata, che sia la durata stessa a esser parte dello spettacolo.

Cillian Murphy as J. Robert Oppenheimer in OPPENHEIMER, written and directed by Christopher Nolan
Cillian Murphy as J. Robert Oppenheimer in OPPENHEIMER, written and directed by Christopher Nolan
Cillian Murphy as J. Robert Oppenheimer in OPPENHEIMER, written and directed by Christopher Nolan (Universal Pictures)

Oggi, a risultare lunghissimi sono spesso i blockbuster, cioè quei film di azione che in teoria richiederebbero secchezza, suspense, e magari molti spettacoli al giorno. Invece ouvertures, introduzioni come per le opere liriche, proiezioni in mezzo alle scenografie come per The Hateful Eight… E poi, nei franchise, film che sono tutti un preambolo, in vista di capitoli venturi (clamoroso Dune). In questa chiave, film-monstre come Oppenheimer o The Brutalist mi sembrano gesti compensativi, la cui ambizione è specchio dell’ansia dell’autore nell’epoca delle serie e dei franchise. Dicono, con vocetta stridula: sono qui, sono autore, sono regista. Lo dichiarano con cartelli luminosi: sono in pellicola! In 70 mm! In IMAX! Duro 3 ore! Quattro! Ho un attore che fa una performance virtuosistica in primo piano! Come posso non essere cinema?

È la logica dell’evento, che si è sostituita a quella dei generi, dei divi e degli studios. Se la produzione quotidiana di immagini e di storie, brevi o enormi, ci è fornita dalle serie televisive e dai video sui social, il cinema (e non solo e non tanto quello d’autore, quanto proprio quello che vuole essere Il Cinema, l’erede di ciò che quella cosa era stata per le masse nel XX secolo). Anche se forse quello che ha visto con più lucidità questa situazione, e forse ha fatto un film anche su questo, sull’implosione delle immagini e del racconto, è l’ottantacinquenne Coppola di Megalopolis.