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C’è una linea, nei memoir scritti dalle donne, che comincia con Simone de Beauvoir e finisce con Annie Ernaux; quella linea per me compie a un certo punto una deviazione con Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, che ha qualcosa di ontologicamente diverso ma lo stesso nucleo infiammato, la stessa necessità radicale di piazzare un dispositivo a orologeria nel cuore di una famiglia attraverso lo sguardo di una figlia che ne è parte ma è anche qualcos’altro: è la persona che racconta la storia, e quindi dall’esterno se ne appropria, con un’emancipazione nuova, un passo più svelto.
Tuttavia, a parte (anzi compresa) la deviazione italiana, quella linea che si conclude finora con Memoria di ragazza di Ernaux si origina da un altro titolo, gemello fin nella parola chiave del titolo, Memorie d’una ragazza perbene di de Beauvoir. Lo lessi poco più che adolescente perché avevo intuito, dai discorsi che se ne facevano intorno e dal modo in cui la sua sola copertina sprigionava vitalità e rispetto, che mi avrebbe detto qualcosa dell’infanzia che stavo lasciando e della strada verso la vita adulta su cui mi sentivo agli inizi.
Di tutte quelle scene così incollate alla mia immaginazione che non so più dire quante volte le ho lette, o se ne sia bastata una sola, mi sono – come si usa dire – “fatta un film” cento e mille volte. L’ho sempre immaginato dentro di me: “Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco sul boulevard Raspail”, e poi foto di donne “lunghe gonne e capelli impennacchiati di piume di struzzo” e signori in panama che sorridono a un neonato, la nascita della sorella più piccola e Simone mascherata da Cappuccetto Rosso per sentirsi più adulta, più interessante della nuova arrivata che le ruba la scena.
L’infanzia racchiusa in tre parole: “qualcosa di rosso, e di nero, e di caldo”: vorrei essere un pittore per fare un quadro dalla prima pagina di questo libro e un regista per girarne la prima scena. È tempo di Piccole donne, del resto: questi nostri anni stanno dimostrando di eccellere nel raccontare lunghi cappotti e ancor più lunghe emancipazioni. Perciò, se possiamo divertirci a selezionare un viso per Simone, altrettanto forte e ancor più immaginifico è quello che daremo a Zazà, l’amica del cuore, la cui perdita significherà l’ingresso reale nella vita dei grandi.
C’è qualcosa di Beth March, nel ruolo involontario di Zazà, e c’è qualcosa dell’Amica geniale, quell’essere inseparabili che fa sentire invincibili negli anni in cui sfidiamo la morte facendo finta di non avere paura, o forse non provandone affatto, perché nella giovinezza tutto è possibile e niente è vero. Paradossale, per un memoir: che forse voleva essere “soltanto” una storia personale e invece ha finito con l’essere la storia di tutte, il più bel romanzo femminista del Novecento. E le ragazze di oggi lo conoscono? È tempo, si diceva, di una nuova rilettura.