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illustrazione di Mara Cerri
Nella prima edizione a stampa di trentasei opere teatrali di William Shakespeare, il First Folio, si legge: “The Weyward Sisters, hand in hand / Posters of the sea and land, / Thus do go, about, about, / Thrice to thine, thrice to mine, / And thrice again to make up nine. / Peace, the charm’s wound up”. In seguito, “Weyward” fu sostituito con “Weird”, il termine che oggi usiamo per indicare l’arte bizzarra. Così sono diventate immortali le sorelle fatali che nel Macbeth girano in tondo fino a completare l’incantesimo, tre donne misteriose che oggi una scrittrice anglo-australiana omaggia nel loro primo nome.
Weyward, tradotto da Enrica Budetta per Fazi, è un esordio fortunato, lodato da una bestsellerista come Abi Daré, e non è difficile capire perché: dà voce a donne maltrattate, perseguitate, sminuite. Le voci sono tre, e si alternano coprendo archi temporali diversi: c’è Altha, che incontriamo nel mezzo di un processo per stregoneria nel Diciassettesimo secolo, poi Violet, bambina degli anni Quaranta che sogna di fare l’entomologa ma non può perché è un mestiere da maschi, e Kate, giovane donna contemporanea in fuga da una relazione violenta.
Per ciascuna di loro la scrittrice Emilia Hart ha trovato una lingua e un animale simbolico, per ciascuna ha identificato ostacoli e nemici e indicato la sfida, ma non si tratta di donne vincenti. Le streghe non vincono e non perdono, le vere streghe spesso non sanno nemmeno di esserlo, a meno che circostanze nefaste non le costringano a guardare a fondo dentro la propria essenza e quindi la propria storia.
È Kate, la più fragile e la più lontana dalla magia, a riannodare i fili. Persa in una solitudine che si affollerà, riallinea le storie, incastra i dettagli fino a impadronirsi di nuovo del cognome che si perde nel tempo, il cognome delle donne. La W di Weyward torna a brillare in un romanzo godibile e affascinante, le cui pagine più riuscite sono quelle che legano il femminile alla terra, al mondo naturale.
Viene in mente Gli anni dei ricordi (How to make an American Quilt), il film del 1995 con Winona Ryder nei panni di una studentessa che, per finire la sua tesi di laurea e per riflettere sulla sua vita sentimentale, si rifugia a casa della nonna e della prozia, e lì grazie alla tessitura di una coperta capisce di più di sé e della sue radici. Quando Kate, in Weyward, si chiude nel cottage della prozia, ho pensato che sì, è proprio ora di aggiornare quell’immagine che noi ragazze degli anni Novanta non abbiamo dimenticato.