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Il servo di Joseph Losey
Nella irrequieta vivacità della Hollywood degli inizi, nessuno più di Erich von Stroheim gioca il tutto per tutto sulla carta della più spietata crudeltà. L’aristocratica altezzosità degli atteggiamenti e la taglia soldatesca della collottola rigida e del cranio rasato, corrisponde perfettamente allo slogan “l’uomo che amereste odiare”. Nei suoi film le contraddizioni dell’immigrato austriaco si risolvono in uno dei capitoli più significativi del cinema americano.
Greed (1924) – massacrato dagli interventi arbitrari della produzione – è il suo capolavoro, a cui si affida la fama di autore maledetto. Una miscela esplosiva di intransigente naturalismo e di cupa visionarietà, girata nel corso di sei mesi quasi tutti in esterni che si concludono nell’allucinato biancore del deserto della Dead Valley, al confine tra California e Nevada, dove il protagonista muore accanto al cadavere del suo ex amico e della borsa dell’oro sottratta alla moglie.
Nei primi anni quaranta il record della crudeltà, naturalmente lontana anni luce dalla brutale violenza di Stroheim, spetta a Il corvo (1943) di Henri-Georges Clouzot, che si affermerà nei decenni seguenti come uno dei più originali registi francesi. Basato su una storia vera, il film rievoca la pioggia di lettere anonime firmate “il corvo” che provoca drammi, suicidi, delitti in una cittadina della provincia francese.
È la ferocia dell’analisi sociale, implacabile e crudele, che suscita lo shock negli spettatori, costringendoli a riconoscersi impietosamente nelle immagini dei mostri che lo sguardo dell’autore non fa nulla per attenuare, catturati nel parossistico crescendo delle nevrosi e delle frustrazioni dei protagonisti. Dalla Francia piccolo-borghese del periodo dell’occupazione alla Gran Bretagna degli anni sessanta per verificare con Il servo (1963) di Joseph Losey su sceneggiatura di Harold Pinter un altro livello, più sofisticato ma non meno ossessivo, della crudeltà cinematografica.
La vicenda del giovane londinese, ricco e superficiale, dominato sempre di più dal suo cameriere, è un saggio di clamorosa perfidia sui rapporti di classe e sulla dialettica servo-padrone. Chi è la vittima e chi il carnefice? Nella gabbia dorata di una società opulenta, sono intercambiabili come le due facce della stessa medaglia, pronte a sprofondare nell’abisso del loro cinismo autodistruttivo.
Il teatro della crudeltà di Antonin Artaud s’incontra con Bertolt Brecht in Marat-Sade (1967) che Peter Brook trae dalla sua messinscena teatrale sullo spettacolo che, sotto la guida del marchese De Sade, i pazzi del manicomio di Charenton dedicano all’uccisione di Marat per mano di Charlotte Corday. Se disprezzate il teatro filmato questo film non fa per voi, nonostante la singolare suggestione dei movimenti di macchina e dei primi piani che esaltano i tableaux vivants esagitati e provocatori del dramma di Peter Weiss. Nel segno dei rapporti tra potere e follia, si ripropongono le angosciose inquietudini di quegli anni.