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Lana Turner (Annex)
C’era una volta la vecchia Hollywood, fabbrica di sogni ma anche di stelle. Costruite dai sarti e dai parrucchieri, dai fotografi e dagli addetti stampa, alimentate dai pettegolezzi dei giornali a caccia di gossip. Chi meglio di Lana Turner incarna questo divismo patinato che deve tutto o quasi al maquillage e al guardaroba? Senza dimenticare la provocante bellezza che ne fa l’emblema del glamour, il biondo oggetto del desiderio nell’ultima fiammata del cinema hollywoodiano prima della tv.
Nasce a Wallace nell’Idaho l’8 febbraio 1921, ma dopo la morte del padre si trasferisce con la madre a Los Angeles. Scoperta per caso da un cronista in un drugstore, debutta nel cinema in piccole parti fino a che nel ’38 non viene scritturata dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Si fa notare in Le fanciulle delle follie (1941), il musical dove è la “Ziegfeld girl” che crolla ubriaca ai piedi della sfarzosa scala a spirale.
La consacrazione arriva con Il postino suona sempre due volte (1946), il capolavoro noir di Tay Garnett. Sin da quando entra in scena – asciugamano in testa, gambe nude, rossetto vistoso, unghie laccate – Cora rivela tutto il calamitoso magnetismo della sua presenza. Nell’atmosfera claustrofobica dell’autogrill, decisa a liberarsi del marito con l’aiuto dell’amante, si muove sull’ambiguo crinale tra verità e menzogna, amore e morte.
Altrettanti cortocircuiti della sua contraddizione esistenziale, richiamati dai luminosi vestiti bianchi e dai cupi abiti neri. Subito dopo in I tre moschettieri (1948) di George Sidney è una strepitosa Milady, il cuore nero dell’avventura. Ma solo Il bruto e la bella (1952), lo straordinario film sul cinema di Vincente Minnelli, le offre una delle rare occasioni dove sotto la perfezione del trucco affiora la bravura dell’attrice. La glaciale compostezza della star s’incrina quando il cinico produttore di cui è innamorata la tradisce. Sconvolta, corre via in macchina piangendo disperata, mentre suonano i clacson e lampeggiano i fari delle altre auto.
Sul finire degli anni cinquanta, concluso il lungo sodalizio con la Metro, torna in auge con I peccatori di Peyton (1957) di Mark Robson, il fortunato fumettone sulle ipocrisie della provincia americana che conferma la sua torrida sensualità.
Nel ’58 la vita privata s’incontra con la cronaca nera. Cheryl, la figlia quindicenne avuta dal secondo marito, uccide nella casa di Beverly Hills il gangster Johnny Stompanato con cui la madre ha una tempestosa relazione. In tribunale sarà assolta per legittima difesa anche grazie alla testimonianza della mamma che i maligni considerano la sua migliore interpretazione.
Lo specchio della vita (1959) – il classico del melodramma firmato Douglas Sirk che nel conflitto famigliare sembra alludere al tragico avvenimento – riscuote un enorme successo. A lungo lontana dal set, muore il 29 giugno 1995 a Century City, California. L’anno prima al Festival di San Sebastián era avvenuta la sua ultima apparizione ufficiale, vestita di rosso fuoco a bordo di una Mercedes bianca.