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Io ti salverò
Samuel Goldwyn, mentre nel dicembre 1924 sta attraversando l’Atlantico diretto in Europa, dichiara al “New York Times” che chiederà l’aiuto di Sigmund Freud per portare al cinema le grandi storie d’amore del passato, a cominciare da Antonio e Cleopatra. Solo con l’avvallo della psicoanalisi le più profonde scoperte sull’eros saranno finalmente messe alla portata del grande pubblico. Ma nonostante l’offerta di centomila dollari, il Professor Freud non accetta e si rifiuta persino di riceverlo.
Non va meglio neppure a Georg Wilhelm Pabst che per I misteri di un’anima (1926) non ottiene la collaborazione di Freud, ma si deve accontentare della consulenza di due suoi allievi, Karl Abraham e Hanns Saks. Se la vicenda del chimico Mathias e della sua depressione, che tra un incubo e l’altro rischia di finire in un uxoricidio, funziona solo in parte, è la prima volta che sullo schermo il protagonista si stende sul mitico lettino, anche se la mancanza della parola impedisce di capire fino in fondo cosa si dicono lo psicoterapeuta e il paziente.
Quando nel 1944 Alfred Hitchcock comincia a progettare Io ti salverò, che uscirà l’anno dopo, lo scenario è completamente cambiato. La sua decisione di girare “il primo film psicoanalitico” – dove l’interesse per le teorie freudiane non esclude il fiuto pubblicitario – fa discutere sulla stampa e alla radio, in un momento in cui negli Stati Uniti il successo della psicoanalisi è enorme. Non sorprende certo il produttore David O. Selznick e lo sceneggiatore Ben Hecht, entrambi in analisi, abituati a confrontare le proprie esperienze. Ma purtroppo, nonostante alcune belle sequenze, il caso di Gregory Peck, inseguito dal rimorso e dal senso di colpa e salvato dall’amore della Dottoressa Ingrid Bergman che crede nella sua innocenza, fa acqua da tutte le parti, tanto che lo stesso regista non esita a definirlo “la solita caccia all’uomo presentata in un involucro di pseudo-psicoanalisi”.
Negli anni successivi l’analisi “selvaggia” tipica della cultura di massa, fra i tram che si chiamano desiderio, le gatte sui tetti che scottano, le dolci ali della giovinezza, attraversa il cinema hollywoodiano come un ciclone. Almeno fino all’inizio degli anni sessanta quando John Huston con Freud, passioni segrete (1962) rievoca la stagione prodigiosa in cui il giovane medico viennese scopre il complesso di Edipo e sperimenta su se stesso le angosce dell’autoanalisi, affidandosi allo sguardo allucinato di Montgomery Clift.
Non si scopre nulla di nuovo dicendo che soltanto Woody Allen riuscirà a mettere finalmente d’accordo cinema e psicoanalisi, raccontando ogni volta in modo uguale e diverso – come capita anche in Io e Annie (1977) – il rapporto tra un uomo e una donna che s’incontrano, si amano, si lasciano, senza trascurare il tragicomico sottotesto di nevrosi, inquietudini, ansie, insicurezze, ricordi. Mentre si baciano per l’ultima volta sullo sfondo dello skyline di Manhattan, visto dal Franklin Delano Roosevelt Drive.