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Brigitte Bardot in Il disprezzo © STUDIOCANAL
Se si sfoglia oggi l’album di Brigitte Bardot – nata a Parigi il 28 settembre 1934 – si fa fatica a capire il ciclone mediatico che tra gli anni cinquanta e i sessanta ha accompagnato la sua popolarità.
Il fenomeno Bardot esplode con Et Dieu créa la femme (1956) di Roger Vadim che sforbiciato dalla censura arriva in Italia soltanto due anni dopo con il titolo Piace a troppi. Juliette, la protagonista, se ne va in giro scalza, in chemisier sbottonati o in jeans e T-shirt aderente – ma nello yacht sfoggia un abito rosso fiamma e quando si scatena nel mambo una sgargiante gonna verde aperta fino alla cintura – sullo sfondo di Saint-Tropez prima dell’imminente boom turistico.
“Non ho inventato Brigitte Bardot”, sosteneva Vadim che nel ’52 l’aveva sposata. “L’ho semplicemente aiutata a sbocciare, a conoscere la sua forza, rimanendo fedele a se stessa. Aveva già interpretato sedici film, il diciassettesimo ne fece una star internazionale”.
Nella sua ingenua freschezza il film coglie l’aria del tempo – Juliette abbracciata al jukebox mentre Gilbert Bécaud canta Mon cœur éclate è più di un’eloquente foto d’epoca – e impone l’immagine della donna-bambina, sfrontata e innocente, che alimenta le fantasie maschili nello stesso momento in cui prefigura la rivolta giovanile se non addirittura l’emancipazione della donna. B.B. partecipa negli anni successivi a una trentina di titoli, di cui pochissimi memorabili.
Più sgradevole che convincente, La ragazza del peccato (1958) di Claude Autant-Lara punta sul confronto tra due miti del cinema francese, l’avvocato Jean Gabin, così fragile nel suo solido aplomb di principe del foro, e la torbida ma seducente giovinezza di Yvette, la ragazza alla deriva che al loro primo incontro alza la gonna fino alla vita.
Sotto lo sguardo implacabile di Henri-Georges Clouzot, Dominique di La verità (1960), processata per aver ucciso il fidanzato della sorella di cui era diventata l’amante, viene sottoposta al crudele spogliarello psicologico che la porta a suicidarsi prima del verdetto. Il film scava a fondo nella dolente figura della protagonista, chiusa nell’aula giudiziaria come in una trappola mortale.
La biografia dell’attrice è alla base di Vita privata (1962) di Louis Malle che pesca senza ritegno nell’aneddotica della celebrità illuminando a colpi di flash gli amori compulsivi e i replay matrimoniali della beniamina dei rotocalchi. Fino a inquadrare il primo piano del suo volto con i capelli al vento che dall’alto della torre precipita all’infinito nell’eterno presente dell’icona.
Nella sofisticata alchimia di Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard l’immagine della sex-symbol francese è soltanto uno degli ingredienti del capzioso gioco metacinematografico in cui la crisi coniugale dell’omonimo romanzo di Alberto Moravia passa in secondo piano rispetto a Cinecittà, la moderna fabbrica di miti in bilico tra arte e industria.
Nella sua anarchica vivacità, Viva Maria (1965) di Malle è il sorridente omaggio al cinema-spettacolo in cui Brigitte Bardot e Jeanne Moreau si divertono a impersonare due estroverse cantanti che nell’Honduras di inizio Novecento diventano l’anima della rivoluzione dei peones, in uno svolazzare di vestiti d’epoca e ironici scambi di battute.
Negli anni settanta abbandona il cinema per ritirarsi alla “Madrague”, la sua villa di Saint-Tropez, dedicandosi alla battaglia per la difesa dei diritti degli animali che la vede tuttora in prima fila. Se la stampa non ha più motivo di occuparsi della sua vita sentimentale, soprattutto dopo il matrimonio con Bernard d’Ormale, la diva che per la sua spregiudicata trasgressività tanto ha inciso sul costume, rischia di diventare un’icona della destra francese, più volte condannata dai tribunali per istigazione all’odio razziale verso la comunità musulmana.