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Boris Karloff in Frankenstein (credits: Annex)
Se il teatro s’impadronisce subito del romanzo di Mary Shelley – nato per caso nel 1818, poco più di una scommessa da salotto letterario – è il cinema che dalle origini agli anni Novanta non si stanca mai di saccheggiarlo in oltre una cinquantina di trasposizioni, sequel, varianti, parodie.
Ma la versione decisiva è Frankenstein, realizzato nel 1931 da James Whale per la Universal. Il gusto visivo di un cineasta di formazione europea e la singolare mobilità della sua macchina da presa fanno della nascita del mostro, proiettato verso il cielo in mezzo alla tempesta, il modello iconografico più celebre e imitato. Sospeso tra brutalità e innocenza, attraverso l’eccezionale performance di Boris Karloff, il protagonista diventa la struggente parabola della diversità.
Sin dall’inizio il cinema è il protagonista assoluto di King Kong (1933) di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsacks con il regista sedicente antropologo e la sua troupe, di cui fa parte anche la bionda Fay Wray, che sbarca sulla misteriosa Isola del Teschio. Straordinaria versione del mito della Bella e della Bestia, il cinema popolare vi celebra la sua vocazione per l’avventura.
Se la prima parte non va oltre un altrove già ampiamente frequentato, l’arrivo a New York, con Kong che si aggira nella giungla dei grattacieli, fino a rifugiarsi con la sua bella in cima all’Empire State Building, dove sarà abbattuto da una pattuglia di aerei, è una specie di secondo film, in cui l’esotismo si capovolge nell’incubo metropolitano. Il bacio della pantera (1942) di Jacques Tourneur, prodotto da Val Newton per la RKO, segna una svolta nella storia del fantastico, di cui coglie le inesplorate potenzialità del cinema onirico, sempre in bilico tra detto e non detto.
Quando la protagonista si sente braccata da una presenza invisibile, il film raggiunge il massimo della suggestione attraverso il crescendo del terrore e della violenza, senza che né l’uno né l’altra siano mai effettivamente rappresentati sullo schermo. Nelle trame avvolgenti del chiaroscuro, lo spettatore si identifica con i personaggi, con le loro angosce e le loro sensazioni, prefigurando la rivoluzione del cinema moderno.
Quando nel teatro della città assediata, il protagonista racconta le sue mirabolanti imprese tra i Turchi, agli Inferi, sulla Luna, Le avventure del Barone di Munchausen (1989) di Terry Gilliam, dal romanzo di Rudolph Erich Raspe, il fantastico si contamina con la buffoneria dei Monty Python sempre sopra le righe. Nella sua folgorante visionarietà, il regista inglese lascia affiorare la dialettica tra realtà e fantasia, ragione e meraviglioso.
Se tutto il film si volge nel segno dell’iperbole, sono irresistibili le sequenze delle Città della Luna, dove gli abitanti hanno la testa staccabile in modo da potersi dedicare alle attività intellettuali mentre il corpo fa dell’altro. L’affabulazione postmoderna del racconto si salda allo sfondo in cui si moltiplicano i riferimenti pittorici e le allusioni felliniane.