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Albert Finney in Tom Jones (Webphoto)
Quante volte è stato portato sullo schermo I tre moschettieri, il capolavoro dell’avventura di Alexandre Dumas? Se ne contano almeno una decina, ma la versione più clamorosa è quella di Fred Niblo del 1921 con Douglas Fairbanks, dove il sorridente divo americano è un D’Artagnan di straripante vitalità, un vero atleta che ogni mattina fa ginnastica nella palestra installata sul set. Una delle ultime è il cartoon del 2004 con Topolino, Pippo, Paperino. Clarabella è Milady e Gambadilegno il perfido capitano delle guardie.
Stuart Granger con l’eleganza dell’aplomb e il metro e novanta di statura era il candidato ideale per interpretare Scaramouche (1952) di George Sydney, dal romanzo di Rafael Sabatini. Deciso a vendicarsi del cinico marchese Mel Ferrer che gli ha ucciso l’amico, non esita a indossare le maschere del rivoluzionario, dell’attore girovago, dello spadaccino. Il suo illusionismo performativo trionfa nel duello finale di quasi sette minuti, inventivo e dinamico come i balletti del musical classico. Nel silenzio del teatro vuoto si sente solo il tintinnio delle lame, mentre i due avversari rimbalzano dai palchi ai corridoi, dalle quinte alla platea: una sequenza da applauso.
Tom Jones (1963) di Tony Richardson da Henry Fielding, ambientato nell’ Inghilterra settecentesca, è uno dei maggiori successi del cinema inglese. L’esuberante vitalità del protagonista – un Albert Finney in grande forma che diventa subito un divo internazionale – sbeffeggia con caustica irriverenza il mondo degli aristocratici che rischia di farlo finire sulla forca. Tra satira e parodia, è uno dei pochi film d’avventura raccontato con lo stile vivacissimo e ammiccante del Free Cinema. Se il protagonista non esita a guardare in macchina rivolgendosi direttamente agli spettatori, la caccia è girata con il ritmo frenetico delle vecchie comiche.
I predatori dell’arca perduta (1981) di Steven Spielberg contamina spudoratamente l’avventura esotica con l’horror, il fantasy, il western. Il prof. Indiana Jones – un Harrison Ford perfetto per il ruolo, quasi un Clark Gable degli anni ottanta – lascia il college del New England, dove insegna archeologia, per spingersi nella giungla sudamericana accompagnato da un gruppo di infidi portatori indigeni, mentre sibilano le frecce e il terreno sprofonda sotto i piedi.
È solo l’inizio di una sarabanda adrenalinica in cui l’archeologo d’assalto contende ai nazisti del Terzo Reich l’Arca dell’Alleanza, lo scrigno che contiene le tavole dei Dieci Comandamenti, finendo nell’Egitto pullulante di scavi e di sconcertanti sorprese, messe in scena con l’allegra vivacità del più sfacciato virtuosismo tecnologico. Il segreto del film, e dello strepitoso successo in tutto il mondo, è la sua capacità di rifarsi ai fumetti americani degli anni trenta, da Flash Gordon a Buck Rogers, da Jim della Jungla a Cino e Franco, all’incanto ingenuo di un universo in cui Indiana insegue un camion a cavallo e affronta con la pistola un arabo spaccone che continua a volteggiare la scimitarra.