“Un altro Vangelo no!” esclama sconsolato un angelo di prim’ordine, immaginando il nuovo lavoro che a breve gli verrà affibbiato, dopo la quadruplice fatica di 2000 anni prima. La democratica votazione celeste (che ha limitato il potere di Dio, uno vale uno anche in paradiso) ha appena sancito che a fronte dei disastri combinati “dall’umanità che fa sempre gli stessi errori e va sterminata” non serve un definitivo diluvio universale ma un nuovo Messia, anche se il primo ha fallito “perché sappiamo tutti come è andata a finire”.

Sta qui la debolezza di Santocielo, ultimo film dell’ottima coppia comica Ficarra & Picone, diretta questa volta da Francesco Amato (Lasciati andare, 18 regali): nel desiderio di scrivere un nuovo Vangelo per cambiare i connotati che del Dio cristiano appaiono più antiquati e in contrasto con il modo comune di pensare oggi.

Un quinto vangelo (Pomilio, perdono) “secondo il politicamente corretto”.
Dio non è più l’Assoluto, la verità che si rivela all’uomo ma è il terminale della tirannia dei desideri umani, tirato per la veste da preghiere improbabili e libertà reclamate. La nuova madonna è maschio, il nuovo messia che nasce è bimba, sopravvive non ad Erode ma ad un tentativo di aborto. Tutto il resto (e ce n’è) è spoiler.

Non è un film blasfemo ma ha un “peccato”

C’è chi - forse senza averlo visto - ha scomodato la blasfemia a (s)proposito del film di Natale prodotto da Tramp Limited, portato in sala dal 14 dicembre da Medusa e ben interpretato tra gli altri da Maria Chiara Giannetta (suora che si innamora - ricambiata - dell’angelo annunciante) e da Barbara Ronchi (quasi ex moglie dell’annunciato).

No, non sta qui il punto: la commedia, blandamente brillante, è sempre educata (anche con i temi della fede), gentile, mossa dal desiderio di portare serenità e riconciliazione, come narra il luminoso finale pieno di speranza.

Il “peccato” c’è, ed è lo stesso degli uomini di Babele: il film con la propria lunga torre (120 minuti, eccessivi) vuole raggiungere e impossessarsi del cielo ma purtroppo crolla, disperdendo diverse macerie. Anzitutto il Dio dei Cristiani: la personificazione che ne fa Giovanni Storti (troppo Pdor, figlio di Kmer, della tribù di Istar) nonostante sia in poche scene iniziali e conclusive consente - con la sua approvazione finale dell’accaduto - di accogliere nel piano divino tutto quel che di improbabile e di “umano, troppo umano” la release 2.0 dell’angelo Gabriele (Picone) e il “madonno per caso” (Ficarra) combinano sulla terra inquinata da guerre, pregiudizi, invadenza dei media e populismo.

Ficarra e Picone in Santocielo
Ficarra e Picone in Santocielo

Ficarra e Picone in Santocielo

Sottintendere inoltre che il primo Messia (a dire il vero l’unico) ha fallito perché condannato alla morte di croce è da bocciatura all’esame di catechismo (a questo punto da reintrodurre). Poi l’Annunciazione, una delle pagine più alte della Sacra Scrittura, che ha ispirato capolavori a generazioni di pittori e commediografi: in scena è nenia da mandare a memoria distrattamente, come la lista della spesa al discount. Il suo ruolo è centrale: funge da espediente narrativo - tra slapstick e commedia degli equivoci - che capita non a Nazareth ma in un fosco pub mal frequentato.

Il Messia delle pari opportunità

Ed è proprio questa vicenda tratta dal Vangelo di Luca che fa da innesco al film che velocemente cangia da farsa formalmente rispettosa a lavoro che intende nobilitarsi con giusti temi di impegno civile. Menzioni anche per la preghiera (declassata ad una sorta di terapia) e per colui che partorirà il nuovo messia delle pari opportunità: un deplorevole maschilista, apparentemente religioso ma per convenienza, farcito di pregiudizi.

Santocielo
Santocielo

Santocielo

Ma regge l’analisi teologica una commedia natalizia destinata al vasto pubblico con l’ambizione di grandi incassi? No certo. O meglio, sì, se la questione di Dio non è citazione laterale ma ciò che lancia il film, lo regge, ne sostanzia l’epilogo. Nessuna bava qui per la censura, l’oscurantismo, la limitazione alla libertà di espressione (sia concessa però anche a chi scrive): la questione è narratologica. Se quella che Taylor Coleridge chiamava “la sospensione dell’incredulità” è la legge che norma l’esperienza dello spettatore, non possiamo invocarla quando si prende a zappate (solo maldestre, non volutamente offensive, ma cosa è peggio?) quello che narrativamente (e laicamente) può rientrare nella categoria di mito.

Il cinema può ridere anche di Dio e delle cose sante: oltre al dichiarato rispetto è necessario anche non sconvolgere i fondamenti che caratterizzano la divinità e l’esperienza religiosa. Nel caso di Santocielo, Dio, come ogni personaggio riuscito di una sceneggiatura, si evolve: da un vecchio con le idee antiquate a una divinità finalmente moderna e in linea con il politicamente corretto in campo morale. È ancora Lui? Si può fare? È stato fatto, il film è in sala al giudizio del pubblico, ma così non regge l’autoassolutoria definizione di “commedia rispettosa”.

Barbara Ronchi in Santocielo
Barbara Ronchi in Santocielo

Barbara Ronchi in Santocielo

Su quel Dio, sull’unico Messia, sul Vangelo dell’Annunciazione, sulla Madonna, sulla Natività, sulla preghiera persone e comunità hanno fondato l’esistenza. Perché questa riscrittura così banale di testi che ispirano e reggono vite solo per giungere stancamente ad affermare l’accoglienza, il rispetto, la fine del pregiudizio, la possibilità di agire non come le masse volubili ma secondo criteri propri?

​​​​​​Tutto questo lo ha già annunciato e vissuto Gesù, l’unico Messia: che stava con i poveri, invitava all’accoglienza senza pregiudizi, valorizzava le donne (socialmente ancor più svantaggiate di quanto lo sono purtroppo ancora oggi), non condannava le prostituite, combatteva l’immagine falsa di Dio che troppi uomini religiosi predicavano.

A proposito di Woody Allen, invocato dai due comunque bravi attori comici siciliani quale modello (meglio non scomodare) della possibilità di ironizzare su Dio: provateci ancora, Ficarra e Picone.