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Sandra Milo in Il cuore altrove (Webphoto)
Quanti sono i film di Federico Fellini nei quali appare Sandra Milo? Due, appena due. Certo, uno è un monumento, 8½ (1963), e l’altro è un’allucinazione dov’è una e trina, Giulietta degli spiriti (1965): ad avercene due film così, peraltro usciti nell’arco di un triennio. Eppure a Sandra Milo (morta oggi a 90 anni), al secolo Salvatrice Elena Greco, sono bastati due film per assicurarsi lo statuto di “musa di Fellini”. E, per emanazione, di tutto il cinema italiano. Si dirà che è quella che ne ha parlato di più, offrendo pezzi di un privato via via trasformatosi in un romanzo dove il gossip si elevava a feuilleton (diciotto anni di relazione clandestina, pare), e che è quella che più di tutte si è prestata generosamente – e astutamente – al gioco della nostalgia.
C’è una motivazione antica se non molto rétro (raccontarsi come la “favorita” nell’harem dell’artista, colei che ha innescato il genio), avvalorata da un soprannome entrato nella mitologia del quotidiano (Sandrocchia), ma c’è anche un dato oggettivo: Sandra Milo è il corpo di una poetica, il simbolo del desiderio, la permanenza del sogno nella realtà e viceversa. Un’icona che è pura costruzione cinematografica che, in realtà, testimonia l’intelligenza di un’attrice che ha capito subito di dover essere altra rispetto alla norma.
“Nell’Italia del boom c’era la Lollo, c’era Sophia Loren e in mezzo arrivai io” disse una volta, lei che per l’arte s’era scelta un nome più accessibile dell’originale (Sandra: due sillabe, l’una dolce e l’altra dura, un manifesto d’intenti) e un cognome che è epitome della bellezza (la Venere, appunto). Sandrocchia si dona al cinema con un’originalità, un coraggio, un’ironia, una spudoratezza che forse erano precluse alle colleghe della sua generazione.
Musa di Fellini, d’accordo, ma il deus ex machina è Antonio Pietrangeli, l’uomo che capiva le donne, che la fa debuttare ne Lo scapolo (1956), hostess che non riesce a far capitolare Alberto Sordi, e la reinventa come prostituta gentile dal nome assurdo (Lolita, Nabokov era uscito da poco) in un film capitale, Adua e le compagne (1960: Milo sosteneva di aver perso un soffio la Coppa Volpi a Venezia e noi ci vogliamo credere). E poi il meraviglioso Fantasmi a Roma (1961), che la vede fatua e romantica nobildonna annegata nel Tevere per amore (“L’amore è come la storia: pochi eroi e milioni di vigliacchi”), e soprattutto La visita (1964), il suo capolavoro d’attrice (sedere rafforzato, trucco eccessivo, movimenti sgraziati) in cui è l’indimenticabile Pina, la “culona” di provincia che cerca un marito e trova la malinconia.
Come Lollo, Loren, Mangano e Cardinale, anche lei sposa un produttore, Moris Ergas, che ne cavalca la fama e la disponibilità finché può, tra follie (l’episodio in La donna è una cosa meravigliosa di Mauro Bolognini) e catastrofi (Vanina Vanini di Roberto Rossellini, che già l’aveva diretta ne Il generale della Rovere: a Venezia viene sommerso di fischi e la stampa la rinomina Canina Canini). Il matrimonio va male, anzi malissimo, nonostante una figlia, tant’è che a un certo punto lui le blocca la carriera. Ed è un peccato, perché alla metà dei Sessanta Sandrocchia è all’apice, basta ammirare la complessità, la tenerezza e l’inquietudine con cui cesella il ruolo della moglie nel magnifico L’ombrellone di Dino Risi.
Ma, un po’ gatta e un po’ fenice, risorge dalle ceneri, si ricicla in televisione (qui il romanzo tocca vette straordinarie nell’intreccio tra politica e sentimenti: c’entra, ovviamente, la relazione con Bettino Craxi, in quel momento padrone d’Italia), entra nel mito urlando “Ciro!” in diretta (ma sono memorabili anche le corrispondenze per Blitz: su RaiPlay c’è un suo surreale servizio da Cannes in cui intervista Giorgio Strehler, presidente della giuria in quell’anno).
Poi, certo, il tempo passa e la musa del più grande si concede ai reality di sopravvivenza e ai factual di bassa lega ma, ci risiamo, non manca l’appuntamento con chi la richiama sul grande schermo e, a vario titolo, ne esalta lo statuto iconografico (oltre al doc celebrativo di Giorgia Wurth, Salvatrice): amante stagionata ma scatenata per Leone Pompucci in Camerieri, burrosa tenutaria di una pensione per Pupi Avati in Il cuore altrove, mamma svalvolata con Gabriele Salvatore in Happy Family, testimone del fantasma di Pietrangeli per Gabriele Muccino in A casa tutti bene. E lei, da par suo, si reinventa ancora una volta anche grazie al viatico surreale di Valerio Lundini, prima apparendo nel cult televisivo Una pezza in tv e poi con un tenero cameo in Il più bel secolo della mia vita, uscito lo scorso settembre.
Piera Detassis, che da studiosa pietrangeliana l’ha sempre ammirata, le ha conferito un David di Donatello alla carriera nel 2021 ed è bello rileggere le parole che motivavano quel riconoscimento: “La sua è una presenza quasi votiva, simbolo della femminilità e di come l’ha interpretata il nostro più grande cinema. Milo è la donna che i sogni degli uomini hanno immaginato, ma che l’attrice, con la sua astuzia, ha saputo mettere all’angolo”. Forse, più d’ogni altra cosa, Sandra Milo ha fatto cinema della – e dalla – sua vita, protagonista assoluta di un romanzo (autobiografico e transmediale) che ha pochi eguali nella nostra cultura popolare. Forse è tutto racchiuso in una domanda che Carla, il suo alter ego in 8½, rivolge a Guido, ovvero Fellini: “Ma almeno mi vuoi un po’ di bene?”.