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Come è cosa buona e giusta fare per la cessazione delle guerre, l’eliminazione della fame nel mondo, la salvaguardia del pianeta, anche Fondazione Ente dello Spettacolo aderisce sinceramente e convintamente ai diversi appelli pubblicati in queste settimane per salvaguardare l’esercizio cinematografico. Molte voci (di attori, registi, associazioni di categoria, personalità della cultura e di altre arti) si stanno alzando con forza per evitare che le sale chiuse possano troppo in fretta, con il favore della legislazione locale, diventare sale bingo, centri commerciali. Un problema che riguarda tutta Italia e tante, troppe, sale cinematografiche che da decenni non sono più attive e che giacciono in decadenza.
Nello specifico la questione riesplosa ora coinvolge la Regione Lazio, il circuito di sale che furono di proprietà di Massimo Ferrero (9, tra cui l’Adriano e l’Atlantic, le uniche ancora attive), la consistenza del vincolo e le modalità di riconversione dei cinema chiusi. Mentre il settore dell’esercizio cinematografico chiede una durata del vincolo di 20 anni prima di autorizzare qualsiasi trasformazione, la Regione Lazio propone un termine ridotto a 10 anni. Qualche passo in avanti tra le parti lo si sta compiendo ma la proposta di legge regionale rimane nettamente a favore dell’abbassamento drastico dei vincoli di difesa delle sale, che una volta chiuse, si trasformeranno in altro diminuendo ulteriormente il numero di cinema attivi.
Condivisibili gli appelli, necessario sottoscriverli. Ma è strategico e soprattutto risolutivo intervenire seguendo le emergenze? Non si corre il rischio di ribadire concetti sacrosanti ma che se non affrontati sistematicamente mai potranno essere risolti o almeno contenuti negli effetti negativi?
Stiamo parlando della legislazione nella Regione Lazio, ma cosa accade nelle altre 19? Perché non è possibile – servatis de iure servandis – delegare ad una normativa nazionale la materia?
Ma, anche qui: qualora ci fosse una legge per tutto il Paese, che garanzia avremmo di reale tutela delle sale?
Non sono mancate le voci critiche (consideriamo solo quelle ragionevoli) al desiderio di rafforzare la tutela della destinazione d’uso cinematografica per le sale chiuse da tempo. Dicono: se la gente al cinema va molto meno rispetto a quando quelle sale ancora erano affollate, che logica ha salvaguardare un’offerta se non c’è più una domanda? In nome di un principio lasciamo degradare – anche con conseguenze urbanistiche e sociali – dei luoghi? Quale canone di locazione potrebbe sostenere chi è interessato a riaprire quelle sale per proiettare film? Quanto renderebbe in più, invece, un’altra tipologia di esercizio commerciale? Se non è più economicamente sostenibile un esercizio cinematografico, lasciamo in stato di abbandono questi spazi?
Non sono obiezioni peregrine. Ma stare su questo piano non porterà ad altro che a compromessi al ribasso e al progressivo stillicidio di cinema che chiudono e mai più riapriranno. Come, quindi, elevare la questione ad un livello meno incidentale e più generale, di sistema, o meglio di “visione”?
Ripartiamo da una considerazione.
Ci sono esperienze personali, funzioni sociali, spazi urbanistici che non sono retti solo dalle logiche economiche. Un parchetto giochi per i bambini in città non rimane aperto e tenuto in ordine perché genera reddito o solo fin quando non diventa un affare trasformarlo in un parcheggio a pagamento. È chiaro a tutti quanto sia fondamentale per il benessere delle persone, per la socialità. Idem una scuola, una biblioteca, una chiesa, una piazza, un ospedale.
Se la comprensione collettiva dell’utilità per il bene comune è assodata, è impossibile (dovrebbe esserlo…) che simili spazi perdano la loro natura perché vittime del mercato. Accadrebbero sollevazioni popolari, sarebbe suicida per la politica andare contro il sentire comune della gente.
Il problema è quindi da ricondurre qui: alla comprensione della fondamentale funzione per il benessere personale, comunitario e sociale delle sale cinematografiche, importanti come un parco giochi, una scuola, una biblioteca, una chiesa, una piazza, un ospedale. Ricorrendo i cinque anni dallo scoppio della pandemia, cade anche il primo lustro della definizione più precisa della generale considerazione che in questo Paese godono le arti, tra cui il cinema: “I nostri artisti che ci fanno tanto divertire e ci fanno tanto appassionare”. Non è solo un’uscita infelice del Presidente del Consiglio dell’epoca che prometteva aiuti ad attori e affini disoccupati durante il covid, ma è la reificazione dell’idea diffusa che le arti, il cinema, siano solo esperienze voluttuarie, non essenziali.
La sala cinematografica è il luogo in cui il cinema accade, interpella gli spettatori a proposito della loro vita, della loro memoria, del senso delle esperienze piccole e grandi, dell’esistenza. La sala è sorgente di vitalità e vivacità per un territorio. Diffonde una visione nuova del mondo, contribuisce alla crescita dei giovani, offre possibilità di incontro e impegno anche agli anziani in un Paese sempre più “vecchio”. È una centrale atomica che irradia pensiero e contribuisce ad elevare la qualità morale delle persone.
Il cinema non è solo un medium, un’arte. È anche un luogo, costitutivamente. Passata la stagione degli albori dei Lumière, e di Méliès, da subito il cinema si è sempre “dato” in un luogo preciso, il cinematografo, per un pubblico chiamato a fruirlo fisicamente insieme. E non solo per la mancanza tecnica di altre possibilità, ma per la natura stessa del linguaggio. La questione in gioco ora non è quindi materia da legulei, ricorsi al TAR, cavilli di normative urbanistiche.
La sfida è culturale.
Il cinema in sala non è divertimento: è possibilità di cittadinanza consapevole, è contributo alla costruzione del pensiero, del giudizio, della libertà. È cultura. Per questo è il nostro appello, questa è la campagna.