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Quando, nel lontano 1960, Georges Simenon fu chiamato a presiedere la giuria del Festival di Cannes, pensava di cavarsela in fretta, senza dover chiamare in causa il fiuto investigativo del commissario Maigret: molto onore e una passeggiata sulla Croisette. La grandeur francese lo mise al tappeto e da allora girò al largo dalle giurie. Simenon era un uomo di mondo, una macchina editoriale, abituato a scrivere in solitudine: gli unici capricci con cui aveva a che fare erano quelli della seconda moglie, Denyse Quimet, peraltro hollywoodiani. Il suo fu un vero percorso a ostacoli con queste tappe. 1) L’inaugurazione avvenne alla presenza dello scrittore André Malraux, allora ministro della cultura nel governo De Gaulle, premio Goncourt 1933 per La condition humaine; 2) il film d’apertura fu Ben Hur di William Wyler con Charlton Heston e l’inevitabile codazzo divistico; 3) tra i membri della giuria c’erano il compositore Maurice La Roux, Diego Fabbri, Henry Miller, Marc Allégret, il critico Louis Chauvet; 4) in gara, Jacques Becker (Le Trou), Carlos Saura (I monelli), Vincent Minelli (A casa dopo l’uragano), Jules Dassin (Mai di domenica), Luis Buñuel (Violenza per una giovane), Ingmar Bergman (La fontana della vergine), Peter Brook (Moderato cantabile) e due giganti del cinema italiano: Michelangelo Antonioni con L'avventura e Federico Fellini con La Dolce Vita. Due partiti, due punti di vista, due concetti estetici. Due cineasti al massimo della forma. Tifo alle stelle, la giuria si spaccò, e così il pubblico. Simenon mise tabacco nella pipa e fece quello per cui era stato chiamato: l’ago della bilancia. Scelse il film di Fellini, con cui si dichiarò “in piena sintonia”. Sopportò i fischi, ma fu un esempio di indipendenza.
Quanto conta un Presidente di giuria?
A ogni edizione del Festival di Cannes il dilemma si ripropone: quanto conta il presidente della giuria? La risposta corretta è: parecchio, in una scala da 1 a 10 si può ipotizzare un robusto 9 ½. In realtà, dipende. Dalla personalità con cui il designato interpreta il ruolo, dalla voglia di impegnarsi, di restare nella memoria della rassegna, di imprimere una svolta. Dal giro di venti, spifferi, tifoni (leggi: pressioni). Dalla scontro / confronto con gli altri giurati all’insegna di un ipotetico tutti-per-uno-uno-per-tutti che in Francia non è un motto sconosciuto. Per molti le president è solo “un blasonato testimonial, un privilegiato fantoccio, che riceve più luce di quanta ne regali”. Per altri “un intollerabile dittatore che scavalca la democrazia collegiale”. Per gli idealisti, “un radar sulle nuove tendenze: per ciò che è e per capacità di giudizio”. Tra le presenze forti vanno ricordati: Fritz Lang (1964), Luchino Visconti (1969), Joseph Losey (1972), Tennessee Williams (1976), Giorgio Strehler (1982), Bernardo Bertolucci (1990), Clint Eastwood (1994), David Lynch (2002), Steven Spielberg (2013). Di sicuro, Ruben Östlund, il regista svedese vincitore della Palma d’oro con The Square e Triangle of Sadness (presidente di giuria Vincent Lindon), avrà il suo daffare dal 16 al 27 maggio per sbrigare la pratica. Tuttavia, Östlund piace ai cervelloni del Festival il suo spirito iconoclasta e per questo è stato scelto. Il delegato generale Thierry Frémaux sostiene che “Cannes è un concentrato affascinante, scintillante, glorioso e anche contraddittorio di tutto quello che il cinema ha rappresentato e rappresenta: dalla sperimentazione allo star system, dal mercato alla scoperta di nuovi talenti”. Il presidente della giuria in questo delirio conta, eccome. Per molti la designazione vale come una Palma d’oro alla carriera. Ma ad incidere non è tanto il carisma del conducator / capoclasse quanto il peso specifico delle sue scelte: di quanto queste alzano l’asticella artistica.
Da Kusturica a Moretti, quante battaglie con i giurati
Emir Kusturica nel 2005 era intenzionato più a divertirsi che a giudicare ma non ebbe esitazioni a ribaltare il tavolo e ad assegnare la Palma d’oro ai fratelli Dardenne di L’énfant – Una storia d’amore. Alejandro González Iñárritu, il regista di Babel, uno che evita le giurie, nel 2019 disse: “Il cinema scorre nelle vene del pianeta e Cannes è il suo cuore. Questa è una responsabilità che assumeremo con passione e devozione “. Lo spirito giusto: Iñárritu esprimeva l’avanzare del nuovo cinema messicano. Lo stesso spirito dimostrò Nanni Moretti nel 2012, un Moretti “concentrato, interessato, onorato”. Quando era stato membro di giuria con Isabelle Adjani presidente, nel 1997, aveva fatto fuoco e fiamme per far vincere l’iraniano Abbas Kiarostami per Il sapore della ciliegia e impedire l’ex aequo con L’anguilla di Shoei Imamura. I giurati del 2012, da Jean-Paul Gaultier a Diane Kruger e Ewan McGregor, ne temevano l’atteggiamento intransigente. Vinse Amour di Michael Haneke, e ancora gliene siamo grati. Spike Lee, fermato dall’infuriare del Covid che portò all’annullamento dell’edizione 2020, dovette aspettare due anni per laureare Titane di Julia Ducournau, in cui una Cadillac mette incinta una donna. “Folle e geniale al tempo stesso”, lo definì Spike tenendo a bada con fatica una giuria bellicosa e lasciando intendere che a guidarlo era il gusto della provocazione. Nel 1953 Jean Cocteau impose Vite vendute di Henri-Georges Clouzot. Si ripetè l’anno dopo, cedendo alla orientale del festival con La porta dell’inferno di Teinosuke Kinugasa.
Olivia de Havilland, la prima volta di una donna presidente
Dopo la falsa partenza nel 1939 e l’immediata sospensione per la guerra, la prima edizione del Festival di Cannes si è tenuta nel 1946 ma ci sono voluti vent’anni per vedere una donna presiedere la giuria: nel 1965 toccò alla Dama dell’impero britannico Olivia de Havilland, vincitrice di due Oscar, più famosa come Melania di Via col vento e per la rivalità con la sorella Joan Fontaine. Si affermò Non tutti ce l’hanno… di Richard Lester. De Havilland, a cose fatte, dichiarò: “Sentivo una responsabilità enorme. Ero intimidita dal mio ruolo. Tuttavia, devo ammettere che, come unica donna presente nella giuria di quell’anno, mi sono divertita a presiedere un consesso composto interamente da uomini”. Pensiero che di certo attraversò anche la mente di Sophia Loren, a capo nel 1966 di una giuria tutta maschile che divise il premio tra Signore & Signori di Pietro Germi e Un uomo, una donna di Claude Lelouch. La presidenza femminile divenne sempre più frequente con Michèle Morgan (1971), Ingrid Bergman (1973), Jeanne Moreau (1975 e 1995), Françoise Sagan (1979), Isabelle Adjani (1997), Liv Ullman (2001), Isabelle Huppert (2009), Jane Campion (2014), Cate Blanchett (2018). Sagan è l’unica scrittrice del lotto: finì al centro del furioso dibattito tra i partigiani di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, che venne presentato in una versione non definitiva, e Il tamburo di latta di Volker Schlondorff che Sagan sostenne fino all’ultimo. Più tardi si giustificò: “Differente sintonia”. Ne uscì un salomonico e mai soddisfacente ex aequo.