PHOTO
Roma, santa e dannata - Roberto D'Agostino e Marco Giusti - Foto Benedetta Pistolini
“Capire Roma non solo è impossibile, ma è inutile”. Su un battello notturno che procede sul Tevere, Roberto D’Agostino e Marco Giusti ci accompagnano (“come Dante e Virgilio”, o “come Tomas Milian e Bombolo”) attraverso le contraddizioni e le trasgressioni della città eterna.
Sono gli autori e i “protagonisti” di Roma, santa e dannata , documentario prodotto da The Apartment e Kavac Film, con Rai Cinema (e con Paolo Sorrentino produttore creativo), diretto da Daniele Ciprì, anche direttore della fotografia, oggi in Special Screening alla XVIII Festa di Roma e in sala per tre giorni, il 6-7-8 novembre distribuito da Altre Storie.
“Il progetto nasce durante la pandemia, ricordo che chiesi a mia moglie chi avrebbe potuto raccontare Roma. E lei mi ha subito risposto ‘Dago!’. Allora ho chiamato Roberto, che ha chiamato Sorrentino e che inizialmente avrebbe dovuto dirigere quella che sarebbe dovuta una serie di 8-9 episodi. Poi ha dovuto far fronte ad altri impegni e con Lorenzo Mieli e Simone Gattoni (i produttori di The Apartment e Kavac Film, ndr) abbiamo pensato di coinvolgere Ciprì alla regia”, racconta Marco Giusti.
“Dove finisce La grande bellezza di Sorrentino? Sul fiume. E dove inizia il nostro film? Sul fiume. È come se fosse l’altra faccia della vestaglia della Grande bellezza”, aggiunge D’Agostino, che nel 2000 diede alla luce Dagospia, definito da lui stesso “una portineria elettronica”: “Tacito faceva i pettegolezzi dalla mattina alla sera, non ci siamo inventati nulla con Dagospia. Non è mai diventata metropoli questa città, questo è un paesone. Se fai uno starnuto qua a Roma dopo due minuti ti chiamano e ti dicono ‘hai fatto ‘no starnuto, eh?’, non si scappa. Ricordo una volta che Alberto Arbasino, nativo di Voghera, mi confessò che arrivato qui a Roma smise di andare sia a teatro che al cinema, perché diceva che gli bastava andare al ristorante, che ascoltava tante di quelle storie, tante di quelle battute che andare a teatro o al cinema non aveva più senso”.
Politici, imprenditori, intellettuali, gente di spettacolo, nessuno rimane esente dall’abbraccio unico e infernale di Roma, città capace di tutto, “anche di trasformare Berlusconi in un premier, De Michelis in un ballerino, Renzi in uno statista, Valeria Marini in un’attrice”.
Gironzolando per le strade di Borgo Pio, incontrando personaggi e fantasmi, Dago & Giusti raccontano una città “più misteriosa della formula della Coca Cola”. Enigma perfetto da degradare a metafora: è un binario morto, una polpetta avvelenata, un bordello del pensiero, un pascolo di mostri, un imbuto enorme di demenza collettiva.
Questo viaggio notturno inizia dalla storia di un cinema di Porta Castello, il Mercury, a cento metri dal Cupolone, di proprietà del Vaticano ma con programmazione a luci rosse. Qualche tempo dopo divenne la sede del locale più trasgressivo dell’Urbe, quello che ospitava le prime serate del “Muccassassina” (e poi divenne la sede dell’ufficio stampa per il Giubileo).
Tra i promotori c’era Vladimir Luxuria, che torna a quei giorni di metà anni ’80, prima ancora che “l’evento” da trasgressivo si tramutò in fenomeno di costume: “Le prime volte la gente famosa chiedeva impaurita se ci fossero i fotografi, poi invece speravano che i fotografi ci fossero”.
Ed è questa la sintesi forse migliore per provare a dare il via ad un fiume di aneddotica che vedrà alternarsi sullo schermo i racconti di Carlo Verdone (“Quella volta che con Christian De Sica accompagnammo una giovanissima Monica Guerritore vestita da calciatrice della Roma al Jackie ‘O e lei ci mollò dopo cinque secondi perché ad un tavolo c’era Alain Delon…”), di Massimo Ceccherini (esplosivo e irresistibile come di consueto, di una sincerità disarmante quando ritorna a quei giorni di soldi, ma tanti, sperperati ogni sera per locali, “bevande e polverina”, prostitute e quant’altro: “Ho rischiato di morire più volte”), di Sandra Milo e la sua liaison con Bettino Craxi, di Enrico Vanzina (che fotografa la capacità che aveva Berlusconi di incassare rimostranze e un attimo dopo di portarti dalla sua parte con un potere seduttivo unico), o di Vera Gemma, che riporta a galla le sue esperienze notturne in locali capitolini come il Degrado.
“Al Degrado ci venivano da tutta Europa, era un locale che anziché avere le dark room era un unico ambiente totalmente dark room, al buio totale, dove accadeva di tutto. Era la fine degli anni ’90 ma al di fuori di lì nessuno sapeva niente”, ricorda ancora D’Agostino, che spiega: “A Roma c’è una regola, quando si dà un nome ad un fenomeno trasgressivo quel fenomeno è morto. Quando Fellini – che definiva Roma ‘un cimitero brulicante di vita’ – uscì con La dolce vita diede il nome e quel fenomeno era già finito. Anche se di fatto quel concetto è vivo ancora oggi: si intende quella leggerezza che tende a sdrammatizzare ogni cosa, la capacità che ha Roma di accogliere chiunque. Se un milanese, un bolognese, un torinese venissero a Roma dopo tre giorni si sono già romanizzati. È come se avvenisse una seconda nascita”.
Che poi è quella che la città regala a perfetti sconosciuti tramutandoli in un attimo a “divi”: “Dove la trovate un’altra città come questa che riesce a creare tutta questa serie di macchiette, magari famose per qualche giorno e che poi svaniscono come nulla fosse?”, si chiede ancora D’Agostino, che aggiunge: “I miti, le celebrità? Non c’è scampo per nessuno, chiunque può venir preso a pernacchie da un momento all’altro. Noi siamo di passaggio, Roma resta lì. Come in quella bella immagine catturata da Ciprì dove io e Marco camminiamo con il Pantheon sullo sfondo: quel monumento, un po’ di Agrippa, un po’ di Ottaviano, è lì da millenni, eppure sembra molto più vivo di noi due, vecchietti. La città eterna è questa, un luogo che aspetta l’arrivo dei barbari da tempo immemore e allo stesso tempo non gliene frega nulla, perché quando arriveranno li porteremo da Checco Er Carettiere, con quattro zoccole vicino, e in due minuti diventano stronzi come noi”.
Perché a Roma “l’ideologia non esiste, siamo tutti flessibili, che poi è come dovrebbe essere nei rapporti d’amicizia, o in quelli matrimoniali. L’unico modo per sopravvivere in questa città è questo: bisogna affrontare la vita come un surfista, quando arriva l’onda se le vai incontro affoghi, invece devi cavalcarla per arrivare a riva. E a Roma, appunto, l’onda va cavalcata per arrivare a riva. Credo che quando Gianni Vattimo scrisse Il pensiero debole lo fece pensando a questa città: il pensiero debole è l’antidoto per sopravvivere”, continua D’Agostino, che conclude da par suo: “Avere una corazza, una sovrastruttura, tenere il punto, lo puoi fare forse in città come Milano, a Torino, non qui. A Milano si incontrano gli architetti con gli architetti, i medici con i medici, i froci con i froci, a Roma semo tutti mescolati”. Santi, e dannati.