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Roger Federer
La passione, il tormento, l’estasi. Un gesto sacro e (dunque) infinito dell’esistere capace di riconciliare la Bellezza al corpo umano. Così definiva il “vero tennis” David Foster Wallace, che pensando al tennis visse e – forse – morì. Per questo è imprescindibile evocare il più grande (de)scrittore dello sport evolutosi dalla pallacorda per rintracciarvi le affinità elettive con l’espressione artistica, specie con la scrittura creativa: racchetta e penna si assimilano quali estensioni del braccio competendo “con i propri limiti per trascendere l’Io in immaginazione ed esecuzione”.
Tennista promettente a livello juniores egli stesso, David Foster Wallace rinunciò dolorosamente alla carriera da professionista perché non ritenuto perfetto rispetto agli standard imposti; sublimò pertanto la propria mancata perfezione nella figura di Roger Federer, che contribuì a elevare ad atleta di culto e mito assoluto per una generazione grazie al suo articolo “Federer as Religious Experience” (“Federer come esperienza religiosa”) apparso sul New York Times Magazine nell’agosto del 2006. Del fuoriclasse svizzero, trasfigurato in “genio, mutante o avatar”, esaltò ogni dettaglio di corpo, mente, talento e apollinea eleganza danzante sul campo, evidenziando una caratteristica che accosta il gesto tennistico a quello cinematografico: il senso cinestetico, ovvero “la capacità di controllare il corpo e le sue appendici artificiali attraverso complessi e rapidissimi sistemi di applicazione”.
Tennis e cinema, infatti, sembrano dialogare dall’interno attraverso un linguaggio atavico, primigenio, connaturato tanto da quel prolungamento corporeo – anche la macchina da presa lo è – a modellare e/o riformulare la realtà spazio/temporale, quanto dall’unità di misura – i millimetri – chiamati sia a dimensionare la cara vecchia pellicola, sia a separare una vittoria da una sconfitta, l’in/out rispetto a quel rettangolo disegnato dal diavolo. Ma è soprattutto questa idea wallaceana così organicamente visionaria di “cine-estetica” ad avvicinarli, l’estetica nel movimento e il movimento nell’estetica, concetti limitrofi e basilari a comprendere l’etimologia costitutiva del cinema e del tennis come forme d’espressione artistica.
Senza dimenticare che il tutto si accompagna alla retorica delle metafore: il campo da gioco come set, lo stile del tennista come sguardo sul mondo, la potenza e l’invenzione immaginifiche dei colpi come espressione creativa. Il match è a tutti gli effetti una narrazione, letteraria o cinematografica che dir si voglia: una sfida in primis con se stesso di un essere umano elevato ad artista a forgiare il proprio capolavoro, perennemente in fieri. E il finale a sorpresa di ogni racconto è unico e irripetibile, non fosse per il refrain a forma di medaglia dai lati opposti: l’happy end sorride solo al vincitore.
Laddove esiste un controcampo cinematografico ai cinque saggi di D. F. Wallace sul tennis (cui si aggiunge il romanzo capolavoro Infinite Jest) non v’è dubbio questo sia il documentario L’empire de la perfection (John McEnroe – L’impero della perfezione, 2018) del regista francese Julien Faraut. Se apparentemente sotto la macchina da presa giace il genio sregolato del campione americano, in realtà si tratta di un oggetto filmico ardito, quasi sperimentale, che alternando parallelismi e convergenze tra cinema & tennis ne (rac)coglie le essenze, specie nella decodifica della verità, perché se il cinema – alla fine – è un magnifico bugiardo, il tennis è spietatamente veritiero e per questo quando si ammanta della Bellezza evocata da Wallace diviene gesto infinito.
E allora non è un caso che uno dei nostri più grandi cineasti contemporanei – Matteo Garrone – si dichiari “tennista mancato”: nulla è più cinematografico del fermo-immagine che inquadra una pallina sospesa sopra la rete, il punto di vista più perfetto da dove osservare il nostro destino.