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Roberto Andò
Reduce dalla fine delle riprese del suo nuovo film, L’abbaglio, e in procinto di partire con il montaggio (Il film sarà in sala dal prossimo 16 gennaio), Roberto Andò arriva al Lecco Film Fest per un doppio appuntamento: l’omaggio al suo maestro e amico Francesco Rosi con la proiezione di Salvatore Giuliano e un dialogo pubblico con Valerio Sammarco (Rivista del Cinematografo).
Che non può non partire dal nuovo lavoro: “Mi piace giocare con la storia, trovare uno spazio dove si possa insinuare l’atto fantastico. Qui c’è una vicenda misconosciuta, risalente alla spedizione dei Mille: quando Giuseppe Garibaldi si rese conto di non poter entrare nella strategica Palermo, si affidò al colonnello Vincenzo Orsini, un nobile che aveva tradito il suo ceto e passò al nemico abbracciando la causa giacobina. I Borbone vigilavano con il pugno di ferro ma non sapevano fare la guerra: pensavano che i garibaldini fossero quattro straccioni”.
L’abbaglio segna la quarta collaborazione di Andò con Toni Servillo e la seconda con Ficarra e Picone dopo La stranezza, grande successo del 2022. “Amo Ficarra e Picone, sono una chiave di lettura della Sicilia. Volevano fare un film con me, durante la pandemia mi chiamano e tiro fuori un appunto messo da parte. Era il retroscena di Sei personaggi in cerca d’autore. La stranezza è stato un film galvanizzante, euforizzante, che ha trasmesso gioia perché ha reso il pubblico partecipe del momento creativo. Ma è soprattutto la decantazione di tante cose che ho letto: come tutti siciliani, ho un debito e una rabbia nei confronti di Luigi Pirandello, uno scrittore che mi sollecita dei ragionamenti ma che trovo difficile, non lo metterei mai in scena”.
“Mi interessavano il suo rapporto complicato con il cinema – continua – e quella vicenda del film mai fatto con Murnau, il suo desiderio di non averci a che fare ma ricavarne vantaggi economici e l’avventura hollywoodiana. Il cinema è sempre un tradimento, Pirandello ne aveva un disprezzo aristocratico: il film mette insieme tutte queste suggestioni e molti riferimenti alle sue novelle, in particolare quelle riguardanti il mondo dei morti. In fondo qualunque arte ha questo mandato: raccontare come ritornano i morti”.
L’abbaglio segna anche il ritorno in Sicilia: “Pirandello ha colto un sentimento individuale, l’incertezza di esistere, una capacità di sentire l’esistenza sempre su un confine labile. Ci è riuscito attraverso elementi autobiografici: l’odio per il padre, la devozione per la balia che li raccontava le storie del popolo, la frequentazione del tribunale di Agrigento dove scopriva le cause più assurde, la scoperta della Biblioteca Lucchesiana dove gli spifferavano le storie di corna, la tesi di laurea sulla parlata girgentana. Ha fatto un lavoro da antropologo e ha capito che i siciliani sono incapaci di accettare fino in fondo la realtà”.
Da siciliano, Andò non può riconoscersi in questa visione: “Ho bisogno di correggere la realtà con un dato fantastico, mi permette di andare oltre le storie e cogliere il segreto dei ricorsi storici, un cuore umano”. Una convinzione che si fa sempre più radicata nello sguardo del regista: “Ognuno impara a capire cosa gli è congeniale rispetto a problema della realtà. il cinema italiano ha una grandissima ipoteca neorealista, è il nostro marchio fondamentale, ma dentro questa linea si è sempre insinuato dell’altro: il romanzesco. Che non c’entra niente con il letterario, che non funziona mai al cinema perché diventa illustrazione. Il romanzesco mette in moto un lato nascosto, ha bisogno di un dispositivo, innesca un diverso modo di ragionare. Con il romanzesco non raccontiamo ciò che abbiamo fatto ma quel che non abbiamo fatto; e così raccontiamo meglio noi stessi e la realtà”.
E l’approdo è una conquista: “La mia patria è la leggerezza. Ci sono arrivato dopo un lungo viaggio. Prima mi imponevo freddezza, evitavo le cose calde. Oggi ho capito che è il luogo in cui voglio abitare: me la tengo stretta, questa leggerezza, che significa libertà. Quando ho fatto Viva la libertà, qualcuno disse che avevo scelto un titolo troppo leggero rispetto al più impegnativo Il trono vuoto, il mio romanzo da cui è tratto il film. Ma era una citazione da La rabbia di Pasolini: diceva che è una frase facile da dire ma che bisogna meritarsi e che quini i giovani borghese non potevano dirla. Mi ha sempre colpito. C’è spesso un uso improprio della parola, la politica la declina tradendola. La libertà è una conquista, anche se nel mio può diventare un pericolo. Mario Monicelli diceva che non bisogna averne troppa: siamo come dei sarti, la nostra è un’arte industriale, dobbiamo fare i conti con tante cose”.
Carriera lunga, quella di Andò, classe 1959, iniziata nel 1979 come assistente di Francesco Rosi e proseguita sui set di Michael Cimino (“Lavorammo insieme su Il siciliano e capii che non aveva capito niente di Salvatore Giuliano”) e Francis Ford Coppola (Il padrino – Parte III), ma anche Federico Fellini. “Il nostro fu un rapporto distante, con sporadiche manifestazioni d’affetto. Ero il secondo assistente sul set colossale di E la nave va, mi dovevo occupare di Pina Bausch, che era spaesata e aveva appena subito un grave lutto. Fellini era convinto che fossi innamorato di Pina, mi veniva all’orecchio e mi diceva delle cose irriferibili (ride, ndr)”.
Oggi un giovane Andò avrebbe le stesse opportunità? “Nessuno ha costretto Rosi a prendermi come assistente, però deve nascere qualcosa di magico. All’epoca ero un caso raro, era più in voga il ‘Metodo Nanni’ (nel senso di Moretti, ndr), invece la mia formazione era da grande cinema. Rosi, Fellini, Coppola, Cimino mi hanno sempre dato la voglia di far parte di quella storia. Oggi è cambiato il paradigma delle qualità richieste: se prima si cercava l’originalità e la rottura delle regole, ora imperano l’obbedienza e la capacità di stare dentro un format. Chi inizia a fare cinema o serialità, si trova di fronte a un assetto normativo: o ci stai o rischi”.
“E poi è cambiato lo spettatore – conclude – e sono cambiati i recinti degli autori. Bisogna trovare dentro di sé una duttilità che ti permetta di vedere le cose in un altro modo, continuare con intransigenza nonostante le difficoltò: così si crea la tempra. Oggi è facilissimo confezionare un film, il problema è ritrovare la tensione di un’immagine necessaria. Non accontentarsi, cercare qualcosa che ti ossessioni”.