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Robbie Williams
Autenticità. Lo ripete spesso Robbie Williams, a Roma per presentare A Better Man , il biopic che ripercorre vita, opere e misfatti dell’ex Take That. Diretto da Michael Gracey (The Greates Showman), dal primo gennaio nelle sale con Lucky Red, il film è una confessione a cuore aperto di Williams, che interviene con la voce fuori campo nel ripercorrere le tappe fondamentali di una vita tumultuosa, caratterizzata da abusi ed eccessi come si conviene a una pop star, ma anche di fragilità, traumi e momenti di commovente delicatezza, soprattutto nel nido familiare dominato dalle figure della nonna, della madre e, in un’accezione meno positiva, dal padre. Delle idiosincrasie di Williams avevamo già appreso molto grazie alla miniserie documentaria su Netflix.
A Better Man ripropone in fondo lo stesso soggetto con un diaframma diverso, muovendosi più sul solco del musical, con un’energia e una commistione continua di ironia e dramma, senza fare “il solito biopic di cui siamo stanchi”, come sottolinea Williams, ma provando a destabilizzare il pubblico a partire dalla maschera con cui il personaggio decide di prendersi la scena, quella di una scimmia: “Quello che raccontiamo è come Robbie si vede – spiega Williams usando la terza persona per parlare di sé -. Lui si vede come una scimmia. Il pubblico può vedere Robbie come si vedeva lui”. Un senso di inadeguatezza continua, alimentato dai vari contesti in cui si trova ad operare – la scuola, la famiglia con la figura paterna, lo showbiz – caratterizzano il suo percorso e finiscono per gettarlo in un circolo vizioso di pulsioni autodistruttive. “Non so se questo film può dirsi una terapia – risponde a domanda il musicista -. Lo sarà se andrà bene. Se invece sarà un fiasco, aiuto! ”. Di sicuro è un atto generoso con cui l’artista ha voluto nuovamente mettere a nudo se stesso: “Per me non è un problema spiegare chi sono – ammette - .Non trovo insolito essere sinceri. Dalle prime reazioni vediamo che alle persone questo piace, riconoscono questa autenticità che il film ha e di cui siamo alla disperata ricerca nella vita e nei media”.
Sbaglieremmo tuttavia a pensare che a spingere Williams sia stato un movente solidaristico: “Non ho fatto questo film per altruismo, volendogli attribuire un valore, per suscitare empatia, alleviare il dolore. No. L’ho fatto per motivi puramente carrieristici. Io per professione cerco attenzione, laddove non ricevo attenzione non esisto. È lo stesso motivo che mi ha spinto a fare il documentario per Netflix. Poi siccome la sincerità piace, molte persone si sono ritrovate in quello che raccontavamo. Ma è un effetto collaterale. E comunque il mio lato narcisista ha apprezzato molto.”
Oggi Williams ammette di essere un uomo molto diverso da quello che vediamo per buona parte del film: “Molte dipendenze le ho vinte: Con le droghe e l’alcol ho smesso, col sesso quasi – scherza- . Mi resta il problema del cibo. Devo stare attento, da ragazzino ero grassottello”.
Per l’Italia invece parole al miele: “C’è un’energia qui incredibile. Un bellissimo caos, ogni qual volta entro nei backstage della vostra tv. Ieri ad esempio ero a Napoli per X-Factor e c’era chi correva di qua, chi strillava di là, ma poi guardando con attenzione ho trovato che fosse tutto perfetto. C’è un calore che ti arriva dalle persone, che se riesci ad accogliere non puoi fare a meno di amare. In Inghilterra è tutto più controllato”. A tal proposito sono passati 30 anni dalla sua mitica apparizione a Sanremo con i Take That: “Oh Sanremo! Lo fanno ancora? Mi piacerebbe essere reinvitato. Anche perché allora ero completamente strafatto, chi se lo ricorda!”.