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Pauline alla spiaggia
La maniera di concepire il suo lavoro è unica. Éric Rohmer realizza una serie di film, ognuno dei quali esiste da solo e allo stesso tempo in un gioco d’interazione più grande (pars pro toto).
Una materia organizzata in cicli il cui centro, riattivato film dopo film, è costituito dalla questione del desiderio, dei suoi eccessi e delle sue carenze. Un cinema improntato a un’estetica che privilegia il naturale ma produce il teatro.
Tra due “hors série”, adattamenti in costume della grande letteratura (La Marchesa von... e Il fuorilegge), Rohmer immagina “Sei racconti morali”, girati tra il 1962 e il 1972, e poi “Commedie e proverbi”, una collezione anni Ottanta di minuscole variazioni, ricorrenze e ossessioni, a cui faranno seguito “I racconti delle quattro stagioni”, ben radicati negli anni Novanta.
Tre raccolte e tre appassionanti spaccati di vita che costituiscono un materiale insostituibile sulla condizione umana e la sua commedia alla fine del XX secolo. Questa maniera programmatica e quasi rigida di pensare l’opera cinematografica, costretta in un indice che l’autore deve progressivamente elaborare e di cui si prefigge l’obiettivo, sembra quasi in contraddizione con le realizzazioni a cui ha dato origine, che sono ogni volta dimostrazioni di una libertà concettuale e scenografica assoluta.
Se il titolo “Commedie e proverbi”, di nuovo al cinema dal 30 settembre, è preso in prestito da Alfred de Musset, il discorso impostato è insieme giansenista, gesuita, sadiano, fatto di trappole e di paralisi perché l’azione ha lasciato il passo alla parola.
Gli eroi rohmeriani giocano a testa o croce con le mots. Seguendo “Sei racconti morali”, “Commedie e proverbi” continua a guardare la Francia nel profondo degli occhi e ad esplorare la sua identità nazionale.
Realizzati tra il 1980 e il 1987, formano un insieme più libero e una tematica meno rigorosa, sensibilmente orientata verso la commedia. Il principio è semplice: ogni film è l’illustrazione di un proverbio o di una citazione pescata nella letteratura classica o nel buon senso popolare. Per Rohmer si tratta sempre di tessere un’opera attorno al discorso dell’amore e della ricerca della felicità, ma questa volta contrastata o provocata da contingenze socio-culturali piuttosto che da questioni spirituali ed etiche, come nei “racconti morali”. “Commedie e proverbi” dipinge un ritratto ricco di sfumature della Francia degli anni Ottanta, coi sogni di successo romantico di giovani uomini e di giovani donne, con le metamorfosi della società francese e del suo paesaggio urbano.
Il ciclo comincia con La moglie dell’aviatore (1980), ammirevole sogno critico a occhi aperti, una dichiarazione d’amore sonnambolica alle strade di Parigi, con reminiscenze del realismo poetico di Marcel Carné, tanto caro a Rohmer. L’ultimo film della serie, L’amico della mia amica è ambientato invece nella nuova città di Cergy, utopia architettonica che articola la moderna fantasticheria di uno dei primi documentari di Rohmer, L’era industriale, una riflessione provocatoria sull’industrializzazione e il suo impatto sul paesaggio francese, un corto realizzato per la televisione didattica sulla poesia delle zone industriali, la bellezza del cemento e dell’acciaio. In mezzo, Il bel matrimonio, Pauline alla spiaggia, Le notti della luna piena e Il raggio verde proseguono il cammino errante o maniaco-depressivo di eroine piene di grazia (Béatrice Romand, Marie Rivière, Pascale Ogier…), messe in discussione dai cliché sociali e dai codici della fiction. Ogni film ha la qualità di un manifesto estetico, uno spazio di cornice rohmeriana e di presa diretta per registrare l’aria intorno e le voci acute dei suoi attori che provocano una sorta di bizzarro benessere. Un incanto musicale che ritroveremo in Duras o in Eustache.
Con “Commedie e proverbi” siamo in un luogo oltre il cinema. Un opus come un raggio verde, mortale o carezzevole, che opera senza anestesia sul grande corpo della Francia degli anni Ottanta. Non una Francia qualsiasi ma quella della classe media, popolata da segretarie, shampiste, impiegati, tassisti... La Francia della maggioranza, colta d’estate, da nord a sud, dal sole alla pioggia, da Parigi a Cherbourg, da La Clusaz a Biarritz. Al mare, in campagna o in montagna, estiva e sciolta, Rohmer mette in pratica una concezione molto francese dell’arte e del cinema in particolare, rilevando la grandezza di questa tradizione, la sua sottigliezza spirituale, il suo gusto per l’impertinenza e la libertà, il suo rapporto speciale con la verità che sfida l’immaginario e i suoi inganni. Tradizione che nasce nel cinema dei Lumière, passa per Renoir e contribuisce alla singolarità filosofica del movimento della Nouvelle Vague. Ancora più importante è l’intelligenza con cui l’autore ha saputo reinventarla al cinema, secondo parametri che coinvolgono non solo la parola ma anche una concezione dello spazio e del tempo, un’incarnazione dei personaggi, un fremito della carne, una sensibilità per la natura. Maestro della leggerezza, Éric Rohmer assume per sempre il rigore e l’avventura intima, so french e unanimemente umana. Vedetelo o rivedetelo al cinema.
La moglie dell’aviatore (1980) – François lavora di notte e ama Anne, che lavora di giorno. Una mattina la vede uscire di casa al braccio di Chistian, pilota di linea che vuole rompere definitivamente con lei. Anna accusa il colpo col primo e lascia il secondo alla sua gelosa immaginazione. È una scena chiave, il motore di un equivoco, un pretesto contenuto interamente nel titolo. Lo studente ingannato (dalle apparenze) passerà il resto della giornata a seguire l’aviatore e a formulare ipotesi in compagnia di una vivace liceale in polo Lacoste. Da Place Péreire alle Buttes-Chaumont, con il suo finto lago e le sue rocce di cemento, Rohmer confonde maliziosamente i confini. Parigi è uno studio a cielo aperto e i suoi personaggi la abitano come un palcoscenico. L’artificio dei dialoghi e delle situazioni fa costantemente da contraltare all’aspetto documentaristico delle ambientazioni naturali. La moglie dell’aviatore prende in prestito alcuni motivi di Blow-Up di Antonioni (un pedinamento, una coppia enigmatica in un parco, una fotografia e i suoi segreti...), in tono minore, pretesti ironici per dispositivi altrettanto intelligenti ma puramente rohmeriani. Le peregrinazioni londinesi di Thomas (David Hemmings) si trasformano in una passeggiata onirica (il micro-sonno dell’eroe) nella parte orientale di Parigi, dove le dolci colline del parco delle Buttes-Chaumont sono lo scenario perfetto per il gioco del gatto e del topo che ci vede progressivamente invischiati. Conoscete vittime più belle delle vittime della loro immaginazione?
Il bel matrimonio (1982) – Rohmer si diverte a dare ai suoi film dei titoli fuorvianti, che esprimono più un’illusione che la realtà. Se in La femme de l’aviateur, la ‘femme’ non è una moglie ma una ex, in Le bon mariage il matrimonio è soltanto un abbaglio. Sabine, studentessa di storia dell’arte, decide improvvisamente di sposarsi. Clarisse, sua amica e confidente, le presenta il cugino Edmond, giovane avvocato bello, ricco e libero, “il partito ideale” che Sabine prende d’assalto. Se i “Racconti morali” funzionano secondo lo stesso principio, un personaggio si allontana momentaneamente da una condotta etica, per poi ritornarci, in “Commedie e Proverbi”, eroe ed eroine affrontano una prova da cui emergono può o meno trionfanti. Ma Sabine ne uscirà sconfitta, nessuno dei suoi piani matrimoniali andrà in porto. La messa in scena del soggetto è di una finezza e limpidezza rara ma Il bel matrimonio resta uno dei film più crudeli di Rohmer. Il contratto nuziale assume costantemente un valore commerciale, uno scambio di due posizioni (economiche e sociali) o un desiderio improvviso di ordine borghese. L’amore di Sabine non è altro che una costruzione della sua mente. Volitiva, ostinata e spesso insopportabile, insegue un’idea fissa fino a rimanere amaramente delusa nell’ultimo confronto col ‘suo’ avvocato dentro una sequenza che è un prodigio di equilibrio. Tra imbarazzo, villania e cortesia, André Dussollier è folgorante. Béatrice Romand, altrettanto.
Pauline alla spiaggia (1983) – Marion, una donna divorziata, trascorre l’estate in Normandia in compagnia della giovane cugina Pauline. Sulla spiaggia incontrano Pierre, un ex amante di Marion, che offre lezioni di windsurf e frequenta Henri, un etnologo separato con prole. Marion si innamora di Henri che trascorre la notte con lei ma corteggia di giorno una venditrice ambulante. Sorpreso da Marion, finge che la ragazza sia stata con Sylvain, primo amore adolescenziale di Pauline. Ancora una volta Rohmer filma come un romanziere. I suoi personaggi si muovono in un universo limitato: una spiaggia della Normandia nella luce velata di una tarda estate. Le immagini di Néstor Almendros obbediscono allo stile di Rohmer: strettamente narrativo e inseparabile dalla sua strategia di discorso. L’autore trasforma un vaudeville con equivoci e porte sbattute in un sottile marivaudage, in cui le bugie dei personaggi rivelano alla fine il loro carattere e la loro verità. A dispetto del titolo, che ha qualcosa di infantile, Pauline alla spiaggia avanza su una linea sottile, da qualche parte tra gli stereotipi del romanzo sentimentale enunciati da Madame de Lafayette e la dialettica della transazione amorosa secondo Marivaux e Musset. Si tratta di un’opera infinitamente complessa sulla passione e i suoi derivati. Al centro del film ancora un equivoco, che funge da rivelazione, e il linguaggio, persino la logorrea, per dire le grandi manovre della seduzione, del desiderio, della verità e della menzogna.
Le notti della luna piena (1984) – Le notti della luna piena è il film più morale ma anche il più nostalgico di Rohmer, che mette un falso proverbio (“Chi ha due mogli perde l’anima, chi ha due case perde la testa”) in esergo. Louise, arredatrice parigina, ha tutto per essere felice: è giovane, è bella, ha un lavoro che l’appassiona, ha degli amici e un uomo che la ama alla follia, con lei, confessa, “ha raggiunto l’assoluto”. Ma Louise rifiuta il fondamentalismo della felicità coniugale, rifiuta di trasferirsi in periferia col fidanzato e preferisce continuare a vivere a Parigi. Tra desiderio e perversione, Rohmer filma personaggi che mentono a se stessi e si abbandonano a un gioco di inganni per raggiungere quello che pensano sia le bonheur. Le notti della luna piena è l’occasione per ammirare un giovane Fabrice Luchini, già spettacolare, e Pascale Ogier, chiaro di luna e persistenza ardente dopo la sua morte. Una magnifica promessa interrotta in pieno volo.
Il raggio verde (1986) – Girato in 16 mm, Il raggio verde è un racconto estivo, la storia di una giovane donna instabile e incerta, armata di tre abiti e de “L’idiota” di Dostoevskij. Abbandonata dalla sua compagna di viaggio, vaga per settimane senza trovare pace da nessuna parte, nemmeno nella calorosa accoglienza degli amici che incontra. Delphine (Marie Rivière), una delle più belle eroine di Rohmer, non sa cosa vuole ma sa bene cosa non vuole, lasciando Cherbourg, La Plagne e Biarritz per ripiegare a Parigi. Un’indecisione cronica la sua, ostinata e struggente, che in un semplice controcampo fa venire le lacrime agli occhi. In una successione di giorni datati, Rohmer segue le peregrinazioni e le esitazioni di una ragazza troppo sola, a disagio nella sua pelle e incapace di affermarsi. Il regista osserva un mondo di banalità quotidiana eppure questo film, il cui titolo assume tutto il suo significato alla fine, emana un bagliore smeraldino, un raggio fugace, quasi magico. Quella che poteva essere una facile emozione da fotoromanzo – la protagonista, dopo una fugace prova di solitudine, incontra il vero amore – volge in sentimento metafisico, una sorta di miracolo cosmico. È grande arte quella di trascendere il naturale.
L’amico della mia amica (1987) – Blanche si trasferisce a Cergy-Pontoise, dove incontra Léa, una studentessa di informatica legata a Fabien, un ragazzo simpatico e ‘sportivo’. Blanche si lascia sedurre da Alexandre ma non smette di flirtare con Fabien... L’amico della mia amica è la quintessenza dell’arte di Rohmer e i suoi personaggi sono pedine sulla scacchiera dell’amore, più manipolati che manipolatori, come si immaginano di essere. Ma nessuno di loro sa veramente cosa vuole, né vuole veramente quello che gli accadrà, un destino dettato dalla proverbiale tautologia: “Gli amici dei miei amici sono miei amici”. Non resta che guardarli vivere e abbandonarsi a quello che c’è sempre di più importante nei film di Éric Rohmer: il gioco dei sentimenti. Chi ama chi? Chi amerà chi? Il rigore dell’inquadratura e della composizione delle inquadrature, i gesti e il ritmo del discorso dei personaggi, è pura arte classica, unica e molto francese, che ci conduce a una sorta di esultanza. Ultimo episodio della serie, L’amico della mia amica è il tipo di film che “solo i francesi possono fare”. Solo il cinema francese ha realizzato commedie sentimentali di tale eleganza, dove l’umorismo si converte in angoscia e l’amore diventa un fantasma irraggiungibile.