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The Egyptian Theatre in Park City, Utah, Sundance Film Festival 2024. Foto di Frank Schulenburg
“America’s secret weapon is a blue note in a minor key” (“L’arma segreta dell’America è una nota blue in chiave minore”) scriveva il New York Times il 6 novembre del ’55, citando Louis ‘Satchmo’ Armstrong come “il suo ambasciatore più efficace”. Dal ritmo accelerato di una banda Dixieland trasmessa su Voice of America, l’emittente radiofonica internazionale degli Stati Uniti, a Dizzy Gillespie e Nina Simone inviati come esche per deviare l’attenzione dal primo colpo di Stato post-coloniale africano (ignari di tutto, stavano fornendo copertura per le azioni della CIA). È di questo specchio politico, e della stessa istantanea di Armstrong pubblicata dai giornali dell’epoca, mentre è intento a suonare “note diplomatiche”, che si serve il Sundance Film Festival, nella sua prima vera incarnazione radical post pandemia. Film e documentari come Soundtrack to a Coup d’Etat di Johan Grimonprez sembrano preda di un raptus clandestino, un corpo vibrante, al pari dell’Europa anni Cinquanta che trovava il jazz americano “tanto necessario quanto lo sono le stagioni”, pur non rimbalzando sui ritmi sincopati di Stan Kenton o Duke Ellington. Nelle corde di Eugene Hernandez, neo-direttore del festival, “qui a Park City, tutto torna al punto di partenza”, a quando, cioè, la sensibilità del fondatore Robert Redford faceva del Sundance l’apripista di Blood Simple - Sangue facile (1985, Joel and Ethan Coen), Y tu mamá también (2002, Alfonso Cuarón), Sesso, bugie e videotape (1989, Steven Soderbergh), Memento (2001, Christopher Nolan) o Le Iene (1992, Quentin Tarantino), per citare alcune vecchie ‘scoperte’ indie.


Soundtrack to a Coup d’Etat, featuring Andrée Blouin ©Terence Spencer_Popper foto
In anni quieti, l’attenzione al Sundance Film Festival si è spesso focalizzata su film sconosciuti, piccole fabbriche del Sogno che tiravano palle di neve all’establishment. Ora, con lo spettro del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il festival dalle idee progressiste taglia XXL rivendica il suo DNA da “ribelle con una causa” (Women’s March, cortei pro Palestina… dall’Eccles Theatre alla Library, le manifestazioni sono protagoniste di tutte le venues). Nonostante parecchie cause si stiano sempre di più ridimensionando in appelli minuscoli sui social media, sottrarre il pubblico in sala a un destino di puro caos è forse l’unica arma (cinematografica) rimasta. Se, nel 2017, in programma si abbattevano un film su un pakistano-americano alle prese con la sua identità (The Big Sick), un dramma storico sulla razza e l’eredità della schiavitù americana, diretto da una lesbica nera (Mudbound), fino ad un un sequel catartico di An Inconvenient Truth di Al Gore, sull’importanza del diffondere consapevolezza sulla “rivoluzione della sostenibilità”, l’America e il mondo del 2024 sono altrettanto saporiti e perversi.
La colonna sonora di un colpo di Stato
Soundtrack to a Coup d’Etat, ad esempio, si apre e si chiude con la cantante Abbey Lincoln e il batterista Max Roach che irrompono nelle Nazioni Unite per protestare contro la misteriosa morte del leader del Congo libero Patrice Lumumba. Segue una playlist jazz che lega ogni passo dell’opera, mentre i credits spesso riprendono le palette blu e gialle delle copertine dei dischi Blue Note. La parola Soundtrack si riferisce ai destini politici dei compositori americani in quel periodo, dal finire involontariamente complici fino alla totale dissidenza, con citazioni iridescenti - “Figli bigotti di puttana”, “Voi bastardi del Ku Klux Klan”, etc. - pescate tra il girato d’archivio. “In principio, volevo esplorare l’eredità coloniale del mio paese”, racconta Grimonprez, nato in Belgio. “Ero già affascinato dalla storia di Andrée Blouin, leader dell’indipendenza, consulente del presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, e capo del protocollo del primo ministro congolese, Patrice Lumumba. Una storia cancellata dalla Storia. Da regista, amo esplorare racconti intimi, all’interno di un quadro più ampio”. Tra le altre fonti, il premier sovietico Nikita Khrushchev, l’inviato Conor Cruise O'Brien (escluso dalle Nazioni Unite per aver ordinato un intervento militare in Katanga nel 1961, ma i documenti pubblicati oggi confermano che stava agendo con la piena autorità dell’ONU) e l’autore congolese In Koli Jean Bofane ad alternare le proprie voce. “È la musica a tenere unita ogni cosa” spiega il regista. “Louis Armstrong era lì nei primi mesi dell’indipendenza congolese, mentre Max Roach e Abbey Lincoln si ispirarono al movimento per l’indipendenza in Africa. I commercianti riportarono la rumba da Cuba, proprio dove gli schiavi congolesi avevano contribuito a forgiare la musica secoli prima”.
War Game e la minaccia di un nuovo Capitol Hill
Anche se relativamente poco tempo è dedicato al ‘presente’, Soundtrack to a Coup d’Etat trova il suo contraltare eversivo in War Game, il documentario dei pesi massimi Jesse Moss e Tony Gerber che ha una premessa da pelle d’oca: ci troviamo all’interno di un auto mentre due uomini dal volto semi-oscurato passano davanti a Capitol Hill, fotografando le guardie armate. “Controlli pure il bagagliaio, non stiamo portando niente là dentro”, dice uno di loro. E l’altro: “È qui che vogliamo vedere le truppe degli Stati Uniti abbattere gli americani patriottici”. Non sono semplici uomini. Sono membri dell’Order of Columbus, l’Ordine di Colombo, un’organizzazione ultra-religiosa e paramilitare che sostiene la teoria dei brogli e vede Joe Biden illegittimo. Assistiamo ad una vera e propria simulazione, in tempo reale, di un gioco di guerra condotto da un gruppo di veterani chiamato Vet Voice Foundation, ispirato da un op-ed del Washington Post, redatto da tre generali in pensione, secondo cui il governo deve tenersi pronto per un’altra insurrezione, più dirompente del 6 gennaio 2021. Quando? Appena dopo le elezioni del 2024.


War Game (2024)
Montaggio teso e texture da thriller politico, War Game segue un gruppo di esperti di sicurezza nazionale, da ex senatori e presidenti sfiorati: divertente che il terrore per un altro 6 gennaio li spinga ad organizzare un elaborato gioco di guerra simulando un’insurrezione. I ‘partecipanti’ sono sia di destra che di sinistra, per lo più indipendentisti. Hanno servito almeno cinque amministrazioni, eppure tutti incarnano il nuovo nazionalismo americano, prerequisito legittimo per toccare le vette del potere. Ecco allora l’ex governatore del Montana, Steve Bullock, interpretare la parte del presidente, mentre il suo finto gabinetto, composto dagli ex senatori Heidi Heitkamp e Doug Jones e da una scia di leader militari in pensione, lo guida attraverso una raffica di eventi verso un’illusoria Situation Room. Nel film-messinscena, il giorno in cui il Congresso è chiamato a certificare un’elezione ampiamente contestata nel 2024, il suo avversario, appena sconfitto, istiga i suoi sostenitori alla violenza e ad assaltare il Campidoglio nel tentativo di prendere il potere con forza. Una fanta-rivolta, non troppo lontana dall’aria che si respira qui negli States: il presidente perdente del brechtiano War Game, infatti, ha il sostegno di una larga fetta delle forze armate. “Guarda dove siamo ora”, dice a un certo punto l’ex governatore del Montana, riferendosi alle profonde divisioni in America. “Tre settimane fa soltanto, i sondaggi sostenevano che un quarto degli americani pensa che l’FBI abbia effettivamente istigato l’11 gennaio”, afferma incredulo l’ex candidato presidenziale. “Abbiamo 171 negazionisti delle elezioni alla Camera, un terzo dei membri complessivi del Congresso”.


War Game (2024)
Bullock, un democratico, è stato procuratore generale del Montana dal 2009 al 2013 e si è candidato per il Senato degli Stati Uniti nel 2020. È co-presidente di American Bridge 21st Century. “Non provo gioia nel lanciare l’allarme, ma lo faccio come un orgoglioso democratico che ha vinto tre elezioni a livello statale in uno Stato rurale e conservatore - i democratici sono in difficoltà nelle aree rurali dell’America, e le loro lotte potrebbero condannare il partito” aveva scritto per il New York Times. “Negli ultimi anni, abbiamo visto seggi al Senato passare al rosso in Arkansas, Indiana, North Dakota e altro ancora. I democratici hanno perso più di 900 seggi legislativi statali in tutto il paese dal 2008. E nelle elezioni per governatore in Virginia e New Jersey, abbiamo visto il voto democratico nelle aree rurali crollare, costando al partito un seggio e rischiando di perderne un altro. Il problema principale è uno e già noto - i democratici sono fuori contatto con le esigenze dell’elettore comune”.
Girls State: il futuro della democrazia americana sono le ragazze
Se è proprio il Sundance a mandarci un fictional POTUS dal futuro, spetta allora ai registi Jesse Moss e Amanda McBaine colpire nel segno in fatto di eredità generazionale. I due autori, anche loro ‘figli del Sundance’, prima avevano partecipato ad un programma texano della durata di una settimana, in cui un folto numero di adolescenti maschi eleggono e gestiscono un governo statale fittizio (il film si chiamava Boys State ), oggi ci propongono invece il volto femminile di quella intuzione - Girls State - con un programma gemello nel Missouri.


I programmi governativi fittizi, gestiti dalla American Legion, rimangano separati per sesso e genere nello stesso Stato. Le ragazze seguono un ‘camp’ più libero rispetto a quello dei ragazzi, e si riuniscono settimane dopo la decisione su Dobbs v. Jackson che ha cancellato la sentenza Roe v. Wade del 1973 e il diritto costituzionale all’aborto. I loro diritti, decisi dal comitato, sono al centro del dibattito. A questo gruppo di adolescenti - una cattolica pro-life, una conservatrice, una progressista - spetta il compito di costruire un governo fittizio. Con una nota amara sulle differenze di genere tra l’esperienza a Girls State e quella dei ragazzi del Boys State: l’educazione politica più impegnata e rigorosa pare la stiano ricevendo solo i ragazzi.
I fantasmi di Soderbergh: Presence
Nonostante la sua essenzialità concettuale, la storia di fantasmi Presence, diretta da Steven Soderbergh e sceneggiata da David Koepp, acquisita a Sundance da Neon, è incidentalmente il punto di raccordo della temperatura emotiva dell’America 2024. Come in Unsane e Kimi, al centro troviamo una donna profondamente scossa da alcuni eventi che mantiene un controllo serrato sulla sua lucidità. Il thriller dallo sguardo furtivo di Soderbergh ci getta in una casa ‘posseduta’ dove l’idea del tormento trasforma Park City - 35 anni dopo che Sex, lies, and videotape ha fatto impazzire il Sundance - in un leggero occhio di cristallo acchiappa-fantasmi. Effetti visivi e lavoro di stunt vecchia scuola. “Amo la reclusione”, ci dice Soderbergh. “Amo le storie ambientate in un unico luogo o in un breve periodo di tempo. Un regista (così come un politico) dovrebbe sempre imporsi regole arbitrarie che lo confinano”.


Presence (2024)
Tra il legno d’epoca che riveste finestre, scala, camino di quella casa di fantasmi, dietro lo specchio in vetro fumé, si annida la paranormal activity più feroce di tutte: quella della paranoia e delle cattive filosofie. Dai roghi delle chiese in America allo spettro del Ku Klux Klan, dal veleno Meta all’ipotetico vantaggio di Trump su Biden. Vero o simulato, game o soundtrack, umano o fantasma… Quanto tutto questo (ci) farà male, lo deciderà il prossimo Sundance.