Con Souleymane Cissé e in particolare il suo film Yeelen (La luce,1987) premiato a Cannes con il Prix du Jury, il mondo del cinema internazionale si accorge che esiste un cinema del continente capace di attingere profondamente dalla tradizione, superando gli approcci etnografici, per dare vita a un linguaggio cinematografico autentico la cui intensità simbolica si nutre di elementi ancorati sia all’attualità che al passato. Non più film sull’Africa ma film dell’Africa e dall’Africa.

L’opera di Cissé è intrisa di cultura africana sin dalle sue fondamenta. La “parola”, elemento centrale delle culture orali, diventa nelle sue mani un atto fondante, una narrazione che si fa rappresentazione nella rappresentazione. È proprio nell’armoniosa fusione tra tradizione orale e arte cinematografica che Cissé trova la chiave per dare forma a un nuovo linguaggio espressivo africano.

La dimensione narrativa dell’oralità, espressa nel canto dei griot – custodi della cultura e della memoria dell’Africa – si fonde con l’antica tradizione della fiaba, intessuta di miti cosmogonici e leggende ancestrali. In Yeelen, Cissé si allontana dallo stile più realistico e dall’impronta sociale che avevano caratterizzato le sue prime opere, influenzate dal cinema politico degli anni ’70 e dalla sua formazione in Russia. Anche questi primi film, però, sorprendono per la loro straordinaria attualità.

Il mediometraggio Cinq Jours d’une vie (1972) ha il coraggio di mettere in discussione la funzione educativa delle scuole coraniche, mentre Den Musso (1975), il primo lungometraggio di finzione girato in lingua bambara, è tra le prime opere africane a prendere posizione a favore delle donne, affrontando il tema tabù della violenza sessuale e del conseguente rifiuto da parte della famiglia della vittima. Il film è bandito in Mali e costa al regista alcuni giorni di prigione, durante i quali inizia a scrivere la sceneggiatura di Baara (Il lavoro), uno dei primi film africani di esplicita lotta politica, che racconta la rivolta dei lavoratori maliani. Anche Finyé (Il Vento, 1982) affronta il tema della ribellione, intrecciando gli amori contrastati di due giovani maliani con il fermento di una rivolta studentesca.

Yeelen, @Webphoto
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Yeelen

Nel 1984 Cissé comincia a girare Yeelen, tre anni e mezzo di riprese che si aggiungono a tre anni di ricerca di finanziamenti. Dopo poche settimane, si alza un vento tale da interrompere le riprese. Poco dopo, la tragedia colpisce la produzione: l'attore protagonista muore improvvisamente, costringendo Cissé a rivedere la sceneggiatura. A queste difficoltà si aggiungono le minacce da parte di alcuni capi di società segrete contrari alla possibilità che certi tabù venissero rivelati o messi in scena. Nel 1985 finalmente riprendono le riprese ma il dop francese si ferisce e l’infezione che ne segue impone un'ulteriore sospensione. La lavorazione subisce poi nuovi rallentamenti a causa della mancanza di fondi. Nonostante gli ostacoli, la troupe si compatta, trasformando le avversità in una battaglia collettiva contro il tempo, la sfortuna e le "maledizioni". Finalmente, alla fine di ottobre 1986, tutto è pronto per girare gli ultimi metri di pellicola, con destinazione il leggendario Paese Dogon. Le ultime scene sono girate sul monte Hombori in una zona ancora più remota. Qui, l'ultima fatica di Cissé si sovrappone simbolicamente all’ultima sequenza del film, l’ultimo atto di due imprese quella del regista e quella del suo protagonista. chiudendo così due imprese parallele: quella del regista e quella del suo protagonista.

Ale

Yeelen,@Webphoto
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Racconto in breve questa impresa per rendere omaggio a Souleymane Cissé – Solò per gli amici che hanno avuto l'onore di conoscerlo – e a tutti i pionieri del cinema in Africa che hanno dedicato anni della loro vita a inseguire quello che allora, in Africa, sembrava un miracolo: la realizzazione di un film.

L’incredibile, ma estenuante, avventura di Yeelen ha segnato una lunga pausa nella sua carriera, prima che Cissé tornasse dietro la macchina da presa con un progetto ambizioso dal respiro panafricano: Waati (Il tempo, 1995). In questo film, una giovane sudafricana attraversa l’intero continente alla ricerca della libertà, confrontandosi con le profonde contraddizioni di un'Africa in continua trasformazione.

Ma il vero punto di svolta nel cinema africano è stato Yeelen , un'opera che ha rivelato come le scelte estetiche, formali e narrative possano emanciparsi dai canoni del cinema mondiale per radicarsi profondamente nella tradizione africana. Il suo richiamo al sacro, evocato e suggerito, ci immerge in una dimensione mitica e religiosa, spazzando via le coordinate spazio-temporali e riportandoci ai principi originari della creazione del mondo. La sua messa in scena della parola – riprodotta fedelmente nelle riunioni dei saggi, strutturata come un viaggio iniziatico, archetipo del racconto, o intrecciata a proverbi, preghiere e all’uso della lingua bambara – ha posto le basi per un nuovo linguaggio cinematografico africano, in seguito emulato da tutta una generazione di cineasti del continente.