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Francesco Rosi (Webphoto)
“Perché indagare quel che sanno tutti?”, viene chiesto al giornalista che investiga sulle strategie imprenditoriali di Enrico Mattei e le circostanze della morte. «La gente non sa mai nulla di quello che c’è dietro ai fatti», è la risposta del giornalista De Mauro, alle prese con una serie di informazioni lacunose, di non detti. È una scena de Il caso Mattei, di Francesco Rosi. Ricordarla, nel centenario dalla nascita del regista, è tutt’uno col ripensare l’essenziale del suo cinema e coglierne la forza. Allo stesso modo che De Mauro guarda in macchina, così, simili momenti “rivelano” il cinema di Rosi.
È cinema del tenace indagare, del non contentarsi dei fatti che ognuno sa pensando che siano pacificamente acquisiti. O del non rassegnarsi al poter essere informati dei fatti soltanto. Si tratta, invece, di ricostruirne le relazioni non manifeste, le dinamiche, nella convinzione che non parlino da soli. Così Il caso Mattei, con il continuo andirivieni tra diversi tempi e toni, dalla ricostruzione storica, con Volontè nei panni del presidente dell’ENI, alle indagini dei giornalisti, e persino al “film nel film”, col regista stesso indagatore a propria volta, che si chiede come poter raccontare un determinato episodio.
Ricomposizione, quindi. Che modellava anche la struttura di Salvatore Giuliano, nel quale ogni fatto o affermazione innescavano ulteriori ricostruzioni e racconti, passando di continuo dal processo per l’omicidio del bandito, alle vicende della sua banda, via via scoprendo connessioni tra separatismo siciliano, interessi internazionali, partiti, mafia. Nel cinema di Rosi era dunque in gioco il processo che dei fatti sapeva intravedere i legami, ossia il lavoro che si compie perché i resoconti possano così chiamarsi e prendere forma. Che è trasfigurata nella stessa struttura del film, se replica l’attività ricognitiva, correlativa dell’intelletto. Cui può accadere di scoprire una realtà più allucinata, e torbida, di quel che il senso comune presume di sapere, una volta che si sia andati a fondo nel suo scavo.
È la guerra come lotta di classe di generali vanagloriosi che ordinano attacchi suicidi e fucilazioni punitive in Uomini contro, la cinica speculazione edilizia ne Le mani sulla città (entrambi scritti con Raffaele La Capria, coetaneo di Rosi e scomparso quest’anno, nonché suo compagno negli anni della formazione a una raffinata cultura antifascista). O è il mondo del potere, i complotti, le deviazioni delle indagini in Cadaveri eccellenti. Ma se chi investiga è spinto alla ricostruzione del vero, non è meno appassionato del racconto in se stesso, come attività, o anche dell’affabulazione, di matrice popolare e perciò, in questo, politica (perciò non riducibile a un mero divertissement disimpegnato) come nel fiabesco C’era una volta, da Basile, o nella Carmen.
Del resto, a chi indaga o racconta storie prendendo una decisa posizione politica, interessano “i vinti” (Rosi fu assistente di Visconti per La terra trema), le collettività spesso anonime, le masse popolari. Più che il bandito Giuliano, interessa il cosmo che evoca, le reti di interessi in cui è coinvolto, o interessano gli abitanti dei vicoli napoletani che pagano per gli interessi degli speculatori, e i soldati sull’altopiano di Asiago. E sono i volti dei contadini lucani che spingono a raccontare le memorie del confino in Cristo si è fermato a Eboli. È in vece di chi non ha voce che si racconta, come sapeva Primo Levi, dal quale Rosi trae La tregua, il suo ultimo lungometraggio. Si racconta, allora, e ci si appassiona al racconto, lucidi e inventivi insieme, se non ci si contenta dei fatti, se la conoscenza non è acquisita una volta per tutte e va invece rammemorata e rivissuta. A tutto questo, rivela l’opera di Rosi, si può dare forma di cinema.