PHOTO
Simone Liberati e Silvia D'Amico in Quei due (Credits: Stefano Cirianni)
È italiano, il film che apre la ventiseiesima edizione del Tertio Millennio Film Fest, ed è un film inedito, attuale, urticante, scomodo. È diretto da Wilma Labate, una regista controcorrente e lontana dalle sirene delle mode, e si intitola Quei due. Ma quei due, in realtà, sono tre.
Tra Edda e Galeazzo, infatti, c’è Benito Mussolini, il padre di lei e il capo di lui. Padre e capo di una nazione, che per vent’anni ha guidato con la tirannia dei dittatori. Perché, sembrerà banale ribadirlo, ma questo è stato Mussolini: un tiranno. E come si combatte quello strisciante, nauseabondo, cinico revisionismo perpetrato dagli opportunisti, dai revanscisti mascherati da critici, dai fiancheggiatori del giorno dopo? Con la memoria. E con le parole dei protagonisti.
Sono le parole, infatti, a ricordarci qualcosa che disturba anche coloro che, insomma, “Mussolini ha fatto anche cose buone” e che derubrica le leggi razziali ai contraccolpi dell’alleanza con Hitler. Sono le parole di Mussolini stesso che svelano, anzi risvelano, l’antisemitismo del Duce, che precede l’avvento del nazismo. Non sono le parole del politico, ma quelle dell’uomo. Del padre, inferocito perché la figlia prediletta si è legata sentimentalmente a un ebreo: “Sono i miei peggiori nemici”, scrive in una lettera del 1929. È nel privato del patriarca che si rintracciano le coordinate di una tragedia collettiva.
È questa la bussola di Quei due, che Labate ha costruito – scegliamo questo termine perché vi comprende la ricerca, l’approfondimento, la restituzione, il ripensamento – a partire delle parole dei suoi protagonisti, Edda Mussolini e Galeazzo Ciano. Lei rivive attraverso le testimonianze raccolte nei memoir vergati nel dopoguerra, lui ritrova la voce tramite i diari (originali e riletti dalla saggistica) e gli interventi pubblici da ministro degli Esteri. Alle parole si affiancano le immagini, provenienti dall’infinito archivio dell’Istituto Luce, e l’accostamento permette a Labate di comporre una partitura visiva all’interno di un tempo fluido, ancorato al racconto della storia ma anche riplasmato in maniera anacronistica.
È un film-laboratorio, Quei due, un’operazione coerente con lo sguardo di un’autrice che da sempre cerca di vivificare il passato per leggere il presente e le sue contraddizioni Sia quando abbraccia la fiction (La mia generazione su quel che resta degli anni di piombo, Signorinaeffe per ragionare sulle lotte operaie) che quando sceglie di esplorare il reale (Arrivederci Saigon, realizzato sempre con la complicità dell’Istituto Luce), Labate considera la Storia un testo aperto, uno spazio in cui emanciparsi dalla resa scolastica per riformulare un discorso che possa essere utile al di là della confezione pedante, dello schematismo compositivo, della facilità didascalica.
Labate si affida a due interpreti, Silvia D’Amico e Simone Liberati, che letteralmente reinterpretano due figure storiche innestandole con le suggestioni e le evocazioni successive al periodo raccontato. Da una parte c’è la fotografia di Daniele Ciprì, che sembra dialogare con le luci e le ombre di Vincere, un lavoro sempre curato da lui che scandaglia e fissa l’immaginario del ventennio fascista. Dall’altra ci sono Edda e Galeazzo che, infatti, appaiono con abiti, acconciature, oggetti, arredi contemporanei, a un certo punto ballano su note elettroniche. Non è un capriccio pretestuoso, ma definisce i contorni di un film che lavora su più piani, rende visibile il legame tra la messinscena e le prove, spoglia i personaggi del significante formale del period drama per rivestirli del significato espressivo del saggio storico.
Un approccio che si fa evidente quando vediamo Galeazzo con un computer, intento a scrivere al padre appena morto: è una corrispondenza impossibile, quindi non importa come si manifesta ma perché si manifesta. O quando troviamo la coppia in auto, con l’esterno ricreato dai filmati di repertorio del Luce: un trucco antico, volutamente “posticcio” ma di forte valore espressivo perché cala i due corpi, due segni, nel flusso della storia. Sono solo esempi di quanto quello di Labate sia un film spettrale, in cui tuttavia i fantasmi hanno una consistenza tattile e ingombrano un presente che non ci ha fatto i conti fino in fondo.