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L’eclisse, 1962. Fotografia di scena di Sergio Strizzi © Sergio Strizzi
Quando Michelangelo Antonioni ritorna, 23 anni dopo su invito di enrico ghezzi, sull’isola dove avviene la sparizione di Anna ne L’avventura, compie un’operazione abissale di riscrittura dello spazio disegnato dagli scogli e dall’acqua: Inserto girato a Lisca Bianca vede la mdp muoversi sullo scarno isolotto mentre riecheggiano i suoni, la colonna sonora e i dialoghi della sequenza ne L’avventura in cui si perdono le tracce di Anna, appunto, e gli amici prendono a cercarla urlandone il nome al vento. Nel lasso di tempo passato dal 1960 del film originale all’epoca di questo ritorno, sembrano essersi volatilizzate anche le immagini, di cui restano soltanto le eco sonore, eppure le tracce della ricerca della donna continuano a segnare ogni percorso possibile tra le sterpaglie di Lisca Bianca: stiamo ancora cercando Anna, e come in ogni ghost story che si rispetti, la donna è condannata a replicare la propria sparizione ogni volta che qualcuno metterà piede su Lisca Bianca (“una volta le Eolie erano tanti vulcani” “Pensa che quando siamo venuti qui 12 anni fa hai detto la stessa cosa”).
Ecco, in Antonioni le esplorazioni spaziali hanno puntualmente a che vedere anche con queste traiettorie: il tempo, il paesaggio sonoro, e i fantasmi. Ricordate la sequenza della partita da tennis tra mimi in Blow-Up? I due giocatori-mimo si lanciano una pallina invisibile fingendo di avere delle racchette per le mani, ma quando uno dei due lancia la pallina fantasma fuori dal campo, basta un movimento di macchina di Antonioni a seguire la parabola immaginaria della palla sul prato per non farci dubitare neanche per un istante che quell’oggetto abbia una sua vita, per quanto invisibile – allo stesso modo, giureremmo tutti di stare sentendo il classico rumore sordo delle racchette che colpiscono la palla, durante la partita, anche se i nostri occhi non “registrano” alcuna racchetta.
Ma in che maniera entrano in campo le volumetrie architettoniche in queste traiettorie che giocano costantemente con il non visibile, con il dato non registrabile che da sempre si agita in queste visioni irrequiete? Antonioni, com’è noto, per tutta la sua filmografia va alla caccia della grande architettura da far abitare (o diremmo meglio in quest’ottica infestare) dalle geometrie delle relazioni umane indagate dai suoi drammi, come la Torre Branca di Gio Ponti ne La notte, la Casa Milà di Antoni Gaudì in Professione: Reporter, fino al progetto del cosiddetto “Binishell”, la cupola di cemento ad opera di Dante Bini che Antonioni e Monica Vitti si fecero costruire in Sardegna come nido d’amore, e che oggi è abbandonata tra gli scogli, proprio come quelle costruzioni diroccate che intravediamo ne L’avventura e in Inserto girato a Lisca Bianca.
Nella modalità di intervento su quel paesaggio arcaico (che Antonioni aveva scoperto mentre esplorava le location per Deserto rosso) riconosci l’approccio antonioniano per cui le architetture vengono sostanzialmente reinventate dal suo sguardo, dai movimenti della macchina da presa nei suoi film, se non direttamente dal montaggio. Per il finale di Zabriskie Point in cui la villa tardomodernista incastonata tra le rocce del deserto dell’Arizona salta in aria sulle note di Careful with that axe, Eugene dei Pink Floyd, il film tiene insieme riprese in interni effettuate in un’abitazione progettata da Hiram Hudson Benedict e gli esterni ricostruiti invece sul modello della casa ideata da Paolo Soleri, che la protagonista scruta dal basso e osserva, forse sogna, andare a fuoco ed esplodere in frantumi. Anche in questo caso ritorna lo slittamento fondativo per cui l’aderenza a queste strutture pre-esistenti, intorno alle quali si inerpica lo sguardo di Antonioni, è un veicolo per sublimarne la natura verso una nuova astrazione, un rimodellamento metafisico magari solo vaneggiato.
Viene in mente il finale de L’eclisse, in cui Vittoria e Piero, che stanno insieme e si sono appena riappacificati, si danno appuntamento al solito posto, un angolo di strada dell’EUR a Roma alle otto di sera, e poi nessuno dei due si presenta: tutta la città sembra in tensione, i volti dei passanti, gli autobus che passano, i balconi e le finestre dei palazzi, perfino l’acqua che scorre in un rigagnolo, ogni cosa sembra chiedersi se i due alla fine appariranno, rinnovando il loro legame. Ma la notte cala e a certificare che ormai l’eclisse è compiuta resta solo la luce accecante di un lampione.
Ogni volta che mostriamo questa sequenza nelle lezioni in cui analizziamo come il cinema lavora sullo spazio o sul paesaggio urbano, l’immagine che ci turba maggiormente rimane quella delle strisce pedonali: il punto di ritrovo è già in partenza una condizione di attraversamento, un approdo incerto, un segnale di stop per il traffico cittadino – una metafora di sospensione, l’ennesima, e insieme una sorta di portale verso una realtà alternativa. E se prima o poi, a furia di riguardala, questa scena, li vedremo davvero arrivare una buona volta, quei due?