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"Io sono stato segretario di due partiti – DS e PD- che sono venuti dopo il PCI, ma in questo film non c’è spazio per la nostalgia. C’è solo un sentimento personale; l’unica nostalgia esplicita si ha nella scena in cui Giovanni torna in sezione, dove si dice una frase importante: ‘le ideologie erano sbagliate, gli ideali no’. Ho nostalgia solo di quella luminosa comunità di essere umani organizzati. Erano anni in cui si stava bene insieme perché si sentiva di stare dalla stessa parte. Per il resto non è vero che tutto è finito, tutto peggiorerà, che siamo pronti alla fine del mondo, non è vero che finiremo per arredare il tunnel a furia di starci dentro, credo che una luce fuori ci sia sempre”. Walter Veltroni presenta Quando, film tratto dall’omonimo romanzo (Rizzoli, 2017) al cinema dal 30 marzo in circa 250 copie, distribuito da Vision Distribution.
Sulla scia di Good Bye, Lenin!, il suo protagonista, colpito al volto ai funerali di Enrico Berlinguer, si risveglia dopo un lungo coma in un mondo stravolto: “Giovanni è il mio Antoine Doinel, deve capire un mondo che non conosce, dal cellulare alla caduta del Muro. Ettore Scola che per me è un riferimento – come tutto il neorealismo e Mario Monicelli - intersecava sempre la dimensione personale con quella storica, faceva sempre sì che la Storia piombasse nella vita delle persone. Per cui cercavo la grazia, la misura dei giovani perché lo spettatore si liberasse da ciò che conosce e guardasse il mondo come lo vedono loro, con il loro sguardo innocente. Quello che un adolescente sa vede e dice è imprevedibile, quello che un adulto dice è spesso abbastanza conoscibile. Il personaggio vive una rinascita nel senso pieno del termine, dunque Neri (Marcorè ndr) doveva recitare con la sapienza, l’esperienza e la fisicità di un cinquantenne e il tono, il ragionamento e la voce di un diciottenne”.
Anche l’attore di Porto Sant’Elpidio, ripercorrendo l’avvicinamento al film, preferisce non guardarsi alle spalle: “Avevo letto il romanzo di Walter durante una traversata atlantica fatta con degli amici. Poi ho chiamato Walter per dirgli che secondo me poteva venirci fuori un film. Lui mi ha risposto: ‘ci stiamo già lavorando’. Il libro, in effetti, è scritto con un occhio da regista. Sentivo che oltre la sfida di interpretare un uomo con più di cinquant’anni che intellettivamente ne aveva diciotto, era bello raccontare la storia personale, il suo riprendersi fisicamente e spiritualmente. L’Italia è cambiata tantissimo dal 1984 al 2015 per cui la sfida era conformarsi a questo mondo in continua evoluzione senza far sentire il peso della nostalgia. La vita che abbiamo davanti è sempre più ricca di speranze di quella passata e bisogna sempre cercare di portare nel futuro quello che di bello c’è nel passato”.
E ha spiegato anche come la vicenda pubblica della storia abbia incontrato anche la sua vicenda personale: “nella prima parte c’è il dramma, la presa di coscienza. Giovanni capisce che sono passati trentuno anni, la madre è demente, il padre defunto, nella seconda c’è più spazio per la commedia. Berlinguer ci mancherà sempre, al di là di come uno la possa pensare, ma nel film c’è tanta storia personale: io ho perso il mio babbo nel 2005, ma è sempre troppo presto. Per cui il film è anche bello per questo: da quella storia si comincia a creare un dinamismo, un movimento circolare verso l’esterno”.
Passaggio di tempo, per Veltroni significa anche passaggi negli strumenti di comunicazione: "tra il romanzo e il film c'è stato un buco lungo un terzo di quello del sonno del personaggio. Il libro è stato scritto nel 2014, un’altra epoca, rispetto ad oggi. Mi affascinava l’idea che questo decennio carico di eventi ci consentisse di fare un film nel 2015 con lo sguardo di chi aveva vissuto gli anni successivi. Questo è anche un film sul fascino del gorgo, del vuoto. Lui si sveglia e non sa nulla, è un bambino di 18 anni che deve sapere tutto quello che è successo nel mondo. Nel passaggio dal libro al film abbiamo tolto e aggiunto personaggi come il giovane Leo (Fabrizio Ciavoni); per ragionare sulla difficoltà di comunicazione. Questo è un tempo vissuto con la testa all’ingiù: tutti guardano il cellulare, per cui c'è necessità di rialzare la testa, di guardarci negli occhi, di incontrarci”.
E a proposito di “padri” perduti Veltroni ha voluto ricordare anche “Gianni Minà, un meraviglioso cronista e un grande raccontatore: qualsiasi evento uno cercasse c’era Gianni perché stava nei posti dove un cronista deve stare. Non era un cesellatore di opinioni esterne. Era un uomo molto gentile, sincero, onesto. Riusciva a intervistare chiunque per questo, non faceva il giornalista con la baionetta. Oggi il giornalismo italiano perde una delle sue firme migliori. Ma rimarrà sempre traccia di persone come lui”.