Manca ancora un anno all’uscita di Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini quando Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida appaiono per la prima volta insieme ne Il processo di Frine, episodio conclusivo del film di Alessandro Blasetti Altri tempi – Zibaldone n. 1 (1952). Nell’arringa difensiva a favore della procace Mariantonia Desiderio (nomen omen), l’avvocato De Sica dichiara: “Ma d’altra parte, non è questa stessa nostra legge che prescrive siano assolti i minorati psichici? Ebbene, perché non dovrebbe essere assolta una maggiorata fisica come questa formidabile creatura?”. Ed è grazie a questa battuta, attribuita allo sceneggiatore Sandro Continenza, che nasce il termine “maggiorata”, parola che servirà sia a descrivere quattro dive del dopoguerra (Silvana Mangano, Silvana Pampanini, Sophia Loren e Gina Lollobrigida), sia tutte le altre attrici (come Gianna Maria Canale o Marisa Allasio), che pur non essendo altrettanto famose, ne condividevano la prorompente sensualità.

Alla loro fenomenologia (generata da un un paese che non vedeva l’ora di superare il trauma del fascismo e le ferite della guerra) è dedicato il nuovo libro di Federico Vitella: Maggiorate. Divismo e celebrità nella nuova Italia (Marsilio, pagg. 336, € 32,00), che analizza il modo in cui questo specifico modello di star system (femminile e tricolore) ha rivoluzionato la nostra società, dagli assetti economici dell’industria cinematografica all’impatto culturale, senza trascurare l’ossessiva attenzione dei media e della stampa populista.

Un evento che sembrerebbe difficile da spiegare (e, in parallelo, da comprendere) in un mondo sempre più scisso fra pornografia esplicita e sessuofobia estrema, ma che l’autore inquadra e dipana con prontezza e dovizia di dettagli. Circoscritto al decennio che va dal 1949 (Riso amaro) al 1958 (Anna di Brooklyn), l’epoca delle maggiorate “si alimentava di personaggi femminili dotati di un’inedita concretezza, agli antipodi della sciapita galleria di figurine più o meno esangui interpretata dalla classe attoriale precedente”.

Dopo le fragili eroine dei “telefoni bianchi” e le sofferenti protagoniste del Neorealismo, venne dunque il turno di una nutrita schiera di popolane (mondine, bersagliere, pizzaiole, pescivendole, commesse, fruttivendole, mugnaie, cassiere e imprenditrici in erba), che, con i loro corpi pieni e gaudenti, incarnavano “le figlie minori, ancorché illegittime, della medesima cultura cinematografica che aveva partorito la scarmigliata Giovanna di Ossessione (Luchino Visconti, 1943) prima, la dolente Pina di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) poi”.

All’allure sofisticata e irraggiungibile delle star hollywoodiane (frutto di complesse strategie di marketing), le maggiorate contrapponevano una carica erotica molto più naturale e “ruspante”, esibendo un fisico che, da iniziale manifesto di buona salute e ritrovata prosperità, si tramutò in simbolo del Made in Italy, al pari della pizza, degli spaghetti e di Cinecittà. Non si limitavano ad apparire nei film e a incendiare le fantasie maschili, ma spopolavano sui rotocalchi, concedevano interviste, si offrivano generosamente ai fotografi, aprivano le porte delle proprie case ai giornalisti, rispondevano di persona agli ammiratori, assumevano ruoli istituzionali (poiché toccava loro “allargare i mercati che proprio il neorealismo aveva aperto, nonché contribuire contestualmente al conseguimento dell’amicizia e della simpatia dei popoli e dei governi stranieri, all’insegna del più classico mandato di diplomazia culturale”), facevano pubblicità ai prodotti più disparati e promuovevano un nuovo stile di vita a cui (complici il boom economico e la nuova società dei consumi) le giovani italiane potevano concretamente ambire.

Sophia Loren in La donna del fiume
Sophia Loren in La donna del fiume

Sophia Loren in La donna del fiume

(Annex)

Fu proprio per giocare sul contrasto fra l’ideale di bellezza nostrano e quello straniero che William Wyler scelse Audrey Hepburn come principessa di Vacanze romane (1953), dichiarando: “Niente culo, niente tette, niente vestiti attillati, niente tacchi alti. Insomma, un marziano. Sarà sensazionale!”. Difatti, qualora lo spettatore fosse stato poco attento o recettivo, il cinema italiano aveva ben quattro opzioni tecno-estetico-narrative per valorizzare le maggiorate, che Vitella identifica come “corpo scoperto” (l’inserimento di una svestizione o di una vestizione), “corpo tonico” (una scena atletica, in cui la protagonista si sottopone a uno sforzo fisico per dimostrare la propria emancipazione, in contrasto con l’immagine della sedentarietà femminile), “corpo ritmico” (un momento di danza in balera, in un locale notturno, in un teatro, in un’osteria o in una festa paesana) e “corpo nervoso”, ossia una “sequenza di incontinenza emotiva, di provvisoria perdita di controllo del sé”, riconducibile, secondo le parole dell’autore, a “tutti quei momenti del diva-film che tematizzavano l’acuta sofferenza della protagonista femminile” e, rovesciando la logica tradizionale, ricorrevano a un’emozione “per mostrare lo spettacolo straordinario del corpo stravolto della diva dolorosa”.

Alla fine, Loren, Mangano, Lollobrigida e tutte le altre non sono state solo le ambasciatrici mediatiche di una nuova Italia che inseguiva libertà e benessere, bensì una delle forme più autentiche di connessione socioculturale del nostro Paese.