Avrà compiuto 80 anni da poche settimane quando salirà sul palco della Sala Grande del Palazzo del Cinema di Venezia per ritirare il Leone alla carriera con cui la Mostra lo onorerà, ma Peter Weir è una figura che latita dal cinema che conta da parecchio. Tecnicamente dal 2010, anno di uscita della sua ultima regia The Way Back, dopo il quale il regista australiano ha mantenuto un misterioso riserbo, non solo lavorativo, ma anche umano. Il 2024 è stato l’anno della rottura di questo silenzio, prima la retrospettiva alla Cinématheque di Parigi, nella quale ha confermato il suo ritiro per mancanza di energia, ma secondo Ethan Hawke (che da Weir è stato internazionalmente lanciato con L’attimo fuggente), il quale terrà la prolusione per la consegna del premio, è anche colpa dell’ego di qualche attore.

In ogni caso, il Leone è l’occasione per riaccendere i riflettori su una delle figure più curiose e interessante del panorama hollywoodiano degli anni ’80 e ’90: perché è vero che Weir è nato a Sydney e che in Australia ha debuttato a inizio anni ’70 dopo una formazione europea, ma è anche vero che a Hollywood ha dato il meglio di sé, perfezionando uno stile abilissimo a tenere in piedi il mainstream statunitense e la sensibilità artistica e personale, il senso per i gusti del pubblico e quello per un’idea di cinema più ricercata. Un percorso ancor più singolare perché parte costeggiando l’ozploitation, ovvero i film australiani a basso costo, per lo più horror e thriller, come il debutto nel lungometraggio Le macchine che distrussero Parigi (1974), in cui mescola la violenza estrema del gore americano con l’immaginario di Crash e Ballard.

Opera singolare che al tempo stesso dà il via a una riflessione ampia e profonda su un tema da cui si staccherà molo di rado, ovvero l’incontro/scontro tra ambienti e culture, il modo in cui il singolo si adatta a mondi estranei e come le ingerenze dall’esterno possano corrompere o arricchire la natura di una comunità. Tema miliare, su cui fondare un’intera poetica e che già al secondo lungometraggio vede una svolta decisiva e straordinaria: Picnic ad Hanging Rock (1975), un gioiello capace di creare disagio e malessere solo con la forza delle atmosfere e dell’insondabilità della natura che lo fece conoscere al grande pubblico, tanto da instradarlo in un tipo di opere con cui cominciare a lavorare sulle convenzioni e i conformismi dell’industria - narrativi, produttivi, visivi - per plasmarli e spaziarli. Eccetto L’ultima onda (1977), ancora vicino alle atmosfere inquietanti e perturbanti del genere, nel biennio 1981/82 Weir guarda espressamente a un modo hollywoodiano di intendere il cinema - senza dimenticare le influenze di David Lean, udibili anche nelle musiche di Maurice Jarre - per dargli complessità e profondità togliendogli le banalità dell’industria: Gli anni spezzati è un film elegiaco sulla guerra, genuinamente pacifista, in cui, in realtà, la guerra è la beffa che distrugge la giovinezza e le speranza di due giovani opposti che costruiscono la loro amicizia nei giorni prima dei combattimenti della prima guerra mondiale; Un anno vissuto pericolosamente invece smonta l’eroismo di cui i giornalisti sono sempre stati ammantati dal cinema e fa i conti con la storia coloniale dell’Australia e dell’Impero Britannico, con secchezza e levità.

Da Sydney alle colline di Los Angeles il passo è breve, ma Weir non si fa irretire e non si lascia manovrare, fin dal primo film, Witness - Il testimone (1985), in cui Harrison Ford - alla sua prima nomination all’Oscar come miglior attore - è un poliziotto che cerca di proteggere un gruppo di amish e finisce per essere protetto da loro. Successo, premi e candidature agli Oscar (Weir finirà per collezionarne sei in carriera, più l’Oscar onorario), ma anche la possibilità di ragionare su ciò che gli interessa da una prospettiva ancora più privilegiato, essendo uno straniero in terra straniera, la cui cultura ha tanti punti di contatto con quella statunitense, quanti di distanza. Come Dustin Hoffmann secondo Luca Carboni, il regista non sbaglia un film e realizza opere senza compromessi (Mosquito Coast, 1986) come film leggeri e popolari (Green Card - Matrimonio di convenienza, 1990), successi clamorosi (L’attimo fuggente, 1989) e flop di alto valore filmico (Fearless, 1993). Per arrivare al punto più alto della parabola con uno dei film più intelligenti, appassionanti, profondi e anche profetici degli ultimi 50 anni: The Truman Show (1998), storia di un uomo che nasce e cresce sotto i riflettori della tv, la cui vita è uno spettacolo appositamente costruito, è il punto d’arrivo di una riflessione in cui l’uomo e la società sono sempre sul punto di scontrarsi o confondersi, ma anche di una pratica cinematografica, di una sensibilità in cui le emozioni dirette e piane del cinema “convenzionale” si macchiano spesso di un’inquietudine difficilmente descrivibile a parole.

La celebrazione del Leone alla Carriera, prevista per lunedì 2 settembre, culminerà con la proiezione di Master and Commander, l’ultima grande opera di Weir, prima del tentativo sfortunato che ha segnato il suo addio al mondo del cinema. Un’opera di grande potenza figurativa, di passione per l’avventura, di spettacolo inteso esperienza prima di tutto umana, anche se dentro i gangli del kolossal; ma pure, a ben guardare, un passo fuori dal suo solco. E quel silenzio, così accuratamente mantenuto per più di dieci anni, è perfettamente coerente con il suo viaggio d’artista: è il silenzio di chi si scontra con un mondo diverso dal suo, cerca di capirlo e trasformarlo, ma è costretto a cedere. Senza drammi, con la dignità di un autore a cui il tempo sta dando tutta la ragione e la gloria che si merita.