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Volevamo essere Jo March. E lo eravamo, noi bambine che divoravamo libri chiedendoci se avremmo avuto il coraggio di tagliarci i capelli per venderli e con il ricavato essere generose, fare qualcosa di buono per chi aveva bisogno. Volevamo, come Jo, sembrare più coraggiose di quanto eravamo per poi piangere di nascosto perché i capelli erano l’ultimo residuo di una femminilità verso la quale ostentavamo indifferenza.
Come Jo, sognavamo di essere pagate per i nostri racconti: esiste davvero una scrittrice che è tale solo intorno al camino di casa sua? Una drammaturga che mette in scena commedie disastrate ed eccezionali per cinque, sei persone? Chissà come sarebbe stato, vedere le proprie parole stampate, immaginare altri che le leggevano: quello che Jo aveva sognato per noi si faceva via via concreto.
Jo March, la secondogenita senza gli oneri della più grande né la frivolezza della più piccola, il personaggio con le emozioni più difficili, perché mediate, probabilmente, dalla scrittura… Quando poi negli anni ho letto altri libri di Louisa May Alcott non potevo fare a meno ogni volta di pensare: ecco cosa scriveva Jo. Nel frattempo, mangiavo una mela su una sedia a dondolo con uno scialle, perché era così che faceva lei, e inventavo topolini immaginari che mi fossero amici come accadeva a lei. Poi, questa Jo sognata fino allo struggimento, nella quale mi sono immedesimata fino a trovare consolazione, l’ho vista davvero.
Era perfetta Katherine Hepburn riccia e spigolosa, così diversa dalle illustrazioni della mia edizione che mostravano una Jo bionda e liscia, stranamente simile a Amy. Ed era perfetta pure June Allyson, nella versione del 1949, con gli occhi spalancati e quell’espressione di disapprovazione enigmatica che in lei sempre avevo intuito. Forse sono perfette tutte, le sette Jo degli adattamenti, perché siamo sempre noi.
Infine, Greta Gerwig, che sta componendo con la sua filmografia un mosaico iconico per le ragazze di questi anni, ha scelto di raccontarci l’intero romanzo da un punto di vista diverso: fino a lei, avevamo visto Jo come un personaggio in crescita, che poi si sarebbe persa, quasi smaterializzata per lasciare il posto a un’altra versione di sé, moglie e accudente. Gerwig invece ce la mostra nel vivo dell’intersezione: una scrittrice in bilico, forse sta per cadere, forse per rialzarsi. Jo, sei sempre tu? Lo chiediamo a lei, lo stiamo ancora chiedendo a noi.