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Nel 2006 avevo poco meno di trent’anni e un solo modo di vedere Il diavolo veste Prada: sentirmi Andy. Andy (Anne Hathaway) è la ragazza giovane e ingenua che crede che tutto ciò che ruota intorno ai giornali sia scrittura, e siccome il suo sogno è fare la giornalista dopo un po’ di esitazione accetta di diventare la seconda assistente di Miranda Priestly, direttrice del più influente giornale di moda del mondo. In quegli anni, la mia generazione era fatta da tante Andy. Il mondo del lavoro era cambiato in un modo di cui noi stessi vedevamo i limiti e le ingiustizie, la parola precarietà incombeva e ci faceva sentire ricattabili, senza offrirci alternative. Il lavoro dipendente e solido era un mito finito da un pezzo, e la libertà non aveva nulla di appetibile: essere trattati come schiavi sembrava un destino generazionale, al massimo ci si poteva ricamare su con film, libri, canzoni.
Il diavolo veste Prada – sia il romanzo di Lauren Weisberger sia il film di David Frankel – era la versione glamour e leggera di una realtà smantellante, in cui lo svuotamento era diventato un obiettivo sociale, da contrapporre a un’epica, a volte anche kitsch, della tenacia con cui bisognava inseguire i propri sogni. All’autrice del romanzo era successa la stessa cosa della protagonista del suo best seller: aveva lavorato come assistente di Anne Wintour, a Vogue. Di quelle che percepiva come vessazioni aveva scritto in un romanzo, e con la gloria (e gli incassi) era stata risarcita: in fondo, i libri non sono una forma di riscatto? Chissà come rilegge la sua storia Weisberger, mia coetanea, adesso che si avvicina all’età che aveva Miranda Priestly all’epoca.
Una cosa è certa: la gigante della sua opera, la vera protagonista del romanzo, del film, della leggenda, e anche – sarà beffardo – la ragione del suo enorme successo è lei: Miranda, ovvero Meryl Streep in una delle sue più strepitose apparizioni, una di quelle che baciano un’opera. Il suo sguardo, la sua voce, la sua gelida indifferenza sono così magnetiche da far pensare che lei avesse calcolato tutto, anche la denigrazione.
Il diavolo veste Prada, oggi che di Weisberger si sono quasi perse le tracce, sembra quasi un progetto di Wintour – se solo avessimo la certezza che gliene sarebbe importato qualcosa, dall’alto della sua ineffabile potenza. Come in un Eva contro Eva deformato e alleggerito (ma non deprivato), vent’anni dopo è chiarissimo che non è Priestly ad avere dei problemi con la giovinezza di Andy, ma Andy a vivere un lungo irrisolto con il carisma di Priestly. Lo era anche allora, chiarissimo: ma eravamo tutti dentro un’altra narrazione, e a volte, per capire chi rimane, bisogna semplicemente che passi il tempo e lo indichi.