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Perfect Days (2023)
Ci passiamo in media tre anni della nostra vita ma in Italia come altrove nessuno ne parla, se non con aria imbarazzata o infastidita. Va detto che i bagni italiani, almeno quelli pubblici, sono più una fonte di vergogna che di orgoglio nazionale. Sei italiani su dieci li trovano sporchi e la percentuale sale se chiediamo alle italiane. Perché le donne devono sedersi per la minzione e perché si lavano più sovente le mani, occupandoli tre minuti, contro i due degli uomini. Per le donne, i bagni pubblici sono principalmente un luogo d’ansia e di rabbia, in cui attendono sotto lo sguardo degli uomini e il peso di fisiologie e condotte differenti.
Schernito o ignorato, il tema delle toilette pubbliche riassume alcuni dei principali problemi del mondo. Strutture inadeguate ostacolano la parità e la dignità delle persone disabili, dei senzatetto, di tutti quelli che viaggiano, sappiamo bene che la mobilità è aumentata e la popolazione è invecchiata, sono i più vecchi che vanno più spesso al bagno. Per non parlare dello stato dei servizi nelle nostre scuole, che scoraggiano molti allievi e abbassano di conseguenza il loro rendimento, o della richiesta delle persone transgender e non binarie che ipotizzano la creazione di una terza categoria di “bagni neutri”. Intanto i grafici sono già al lavoro per creare nuovi pittogrammi che cancellino le differenze tra i sessi in nome di una maggiore uguaglianza. I servizi igienici poi sono un’esigenza di salute e di sicurezza per centinaia di milioni di persone ancora costrette a evacuare ‘all’aperto’, ma sollevano anche emergenze ambientali, soprattutto in termini di consumo d’acqua.
L’eccezione giapponese: i servizi igienici come installazioni
Questo tabù sociale, il più resistente, nasconde insomma una moltitudine di questioni (sanitarie, sociali, societarie, urbane, ambientali) ampiamente dibattute ad altre latitudini. In America i fattorini di Uber si battono per il diritto all’uso dei bagni nei ristoranti o nei bar, in India la “lotta contro la defecazione a cielo aperto” è una piaga nazionale, in Giappone la tecnologia sta trasformando le toilette in luoghi in cui rilassare il corpo e la mente, con tanto di assi riscaldate e sottofondo musicale. Nasce così Perfect Days di Wim Wenders, contattato da un’istituzione giapponese per produrre un documentario sulla nuova architettura dei bagni pubblici. L’autore trasforma un progetto sociale in un film di finzione iscrivendolo con Tokyo-Ga, sulle tracce di Yasuirō Ozu, nella sua collezione zen. Wenders segue il quotidiano di un uomo modesto, Hirayama (Kōji Yakusho), cinquantenne impiegato dalla città di Tokyo per pulire i bagni pubblici del quartiere di Shibuya.
Il protagonista lustra coscienziosamente ogni centimetro delle toilette, svolge quel lavoro ingrato alla perfezione, come se ne andasse della sopravvivenza della razza umana. E questo è il punto, perché l’accesso ai servizi igienici puliti e sicuri fa parte dell’esercizio dei diritti umani. I bisogni privati riguardano molte cose, tra cui la dignità. Guardiano del bene pubblico e del savoir-faire spinto all’estremo, Hirayama fa brillare quei piccoli ‘santuari’ di pace, meraviglie di architettura e di design hi-tech. Quella scrupolosità, quella filosofia alla ricerca permanente del miglioramento e della bellezza del gesto perfetto (shokunin) vale come una dichiarazione di poetica: un uomo è una città è un paese è un film, sembra dirci Wenders, parafrasando Gertrude Stein (“una rosa è una rosa è una rosa…”). La chiave di tutto, soprattutto del suo personaggio, è la “rima interna”, quei minuti balbettii della realtà che unendosi finiscono per risuonare un’armonia segreta, nascosta nel disordine delle cose. La forza tranquilla della sua performance è parte del fascino di un’opera che eleva l’infimo ad evento, abbraccia la concretezza e l’immediatezza delle impressioni, in opposizione a una versificazione che le distorce.
La metafisica del bagno da Godard a Tati
Wenders compone intorno a un importante questione urbana, a un trono sordido, un oggetto troppo basso per essere considerato dal cinema. Tabù negoziabile, è a lungo relegato nell’angolo morto della ‘camera’ perché la toilette apre la fabula al fecale, e anche se resta soltanto sul piano simbolico, finisce per contaminarla. I bagni sono il trait d’union tra umano e animale, la prova di un destino comune. Se per Godard nascondono il fondamento negativo di tutte le cose, sono l’aspirapolvere dello spirito, per Wenders diventano un osservatorio che volge in spirito un disgusto antropologico. Wenders non enfatizza troppo l’esotismo delle toilette giapponesi, col loro doccino per l’igiene intima e i loro cubicoli ultramoderni, che passano dalla trasparenza all’opacità per garantire l’intimità.
‘Installazioni’ sanitarie colorate, che di giorno si integrano con l’ambiente e di notte si illuminano come lanterne, documentano la cultura giapponese e la ‘modernità igienica’. La loro presenza muta sullo schermo, con l’andirivieni degli utenti, ammicca a Playtime di Jacques Tati, qualcosa di nuovo che rimanda a qualcosa di vecchio, è la questione del film. Wenders gioca sulla fibra temporale e sulla filosofia del sublime a portata di mano, erede de “L’Infra-ordinario” di Georges Perec o del Paterson di Jim Jarmusch. Anche Hirayama colleziona minuscole estasi di zen nell’esercizio quotidiano. Insinuato nelle pieghe della vita, Perfect Days sembra un film del secolo scorso, un Ozu-film ad altezza di tatami, un compendio di azioni sempre uguali per spezzare un terrore atavico e tentare la sanificazione semantica delle toilette al cinema.