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Avatar - la via dell'acqua
La domanda non è peregrina: perché nonostante sia stato il successo cinematografico più grande della storia, Avatar ha avuto un impatto culturale pressoché inesistente?
Se lo chiedeva già Forbes, un lustro dopo la sua uscita nelle sale nel 2009: "Cinque anni fa, Avatar ha incassato 2,7 miliardi di dollari ma non ha lasciato alcuna impronta nella cultura pop". Passano pochi anni e tocca a Buzzfeed pubblicare un quiz dall’eloquente titolo: "Ricordi qualcosa di Avatar?".
A una settimana dall’arrivo nelle nostre sale del sequel, La via dell’acqua (il 14 dicembre con Disney) - il Godot di questi anni cinematograficamente tormentati (atteso prima nel 2013, poi nel 2015, quindi nel 2016, ancora nel 2017, nel mentre è arrivata la pandemia) – prova a rispondere Jamie Lauren Keiles del New York Times, in un reportage pubblicato qualche giorno fa dalla “signora in grigio”. Val la pena riprendere la sua analisi, a metà strada tra reportage e spassoso diario di viaggio (quando racconta ad esempio la sconcertante esperienza al Pandora: World of Avatar, un’area dedicata all’interno di Disneyworld, Orlando) perché offre più di un perché al cambiamento che ha investito l’intero sistema di produzione dell’immaginario degli ultimi dieci anni.
Anzitutto un chiarimento: se Avatar non è diventato il nuovo Star Wars, la risposta a Jurassic Park o a Harry Potter, non è necessariamente colpa del film. Semmai della ciambella intorno, suggerisce Keiles. Il film di Cameron non sarà il capolavoro che venne salutato all’uscita – lo stesso giornalista americano malignamente lo definisce una “demo di prodezze tecnologiche” – ma di certo non sfigura se paragonato a un qualsiasi capitolo di Marvel Cinematic Universe. Eppure i secondi hanno una persistenza nell’immaginario che il primo non ha avuto. Perché? Ha forse a che fare con la preparazione del terreno, con la semina paziente di hype e la pre-esistenza di una solida fanbase (come nel caso delle saghe che provengono da altri universi mediatici, come i libri di Harry Potter o gli stessi fumetti Marvel)? Sì e no. È vero che Avatar non aveva nessuna schiera di adepti, nessuna carta fedeltà da esibire, ma allora Guerre stellari? Quanto agli hype, il film di Cameron era stato abbondantemente pompato prima dell’uscita.
Avatar è stato menzionato per la prima volta dalla stampa nel 1996. Il Tampa Bay Times, con fare profetico, annunciava: "Attori sintetici reciteranno in Avatar”. La profezia si sarebbe avverata solo 13 anni più tardi ma nel mentre era tutto un florilegio di retroscena e anticipazioni sui mirabilia del film: dallo sviluppo del lessico Na’vi con oltre 2800 parole attinte alle strutture più rare del linguaggio umano, all’invenzione della flora immaginaria di Pandora affidata a un team di botanici; per non dire delle innovazioni tecnologiche, dalle telecamere 3D brevettate da Cameron ai caschi miracolosi capaci di replicare digitalmente le espressioni facciali, in un salto in avanti galattico nella motion-capture, sul quale ha contribuito anche il più grande teatro di posa mai realizzato prima di allora, ricavato (altro dettaglio da iperventilazione promozionale) direttamente nell’hangar dell’aereo di Howard Hughes. L’hype c’era e ha decisamente contribuito al successo planetario del film. Ma - ecco una banalissima verità - l’hype è volatile, non attecchisce in un immaginario.
Sulle ragioni dell’evanescenza culturale di Avatar Keiles avanza numerose ipotesi, tutte verificabili peraltro. Quella decisiva però è il cambiamento di contesto che, proprio all’indomani dell’uscita del film, si sarebbe affermato nel pianeta cinema. Nel momento in cui il gigante di Cameron si intestava – e gli veniva attribuito da molti addetti ai lavori – una cesura epocale, come se fosse lo spartiacque tra un prima e un dopo puramente immaginati, ecco che il prima e il dopo si saldavano inghiottendolo.
Riavvolgiamo il nastro degli ultimi 13 anni, con un prologo: l’uscita al cinema di Iron Man, il primo degli oltre trenta film che oggi compongono il Marvel Cinematic Universe. Era il 2008, l’anno prima di Avatar. Allora non era sufficientemente chiaro come si fronteggiassero già due modelli evolutivi del blockbuster.
Da una parte il film di Cameron puntava sulla creazione di mondi originali, su una crescita infinita del cinema basata sulla sperimentazione tecnologica, sul progresso inarrestabile degli effetti speciali, sulla sala come spazio avveniristico e complice di questo paradigma futurista e vagamente mélièsiano.
Dall’altra il modello Bob Iger, il potente CEO della Disney recentemente tornato in sella, tutto incentrato sul concetto di franchise. Ovvero, sono parole di Iger, di “quel qualcosa che crea valore in più aziende e in più territori per un lungo periodo di tempo".
Così, mentre Avatar guardava al futuro fino a farsi cieco sul presente, Iger prendeva il passato (il brand Disney e la legacy Marvel) e lo ricombinava dentro un futuro anteriore. L’orizzonte di sviluppo era ugualmente infinito, ma ancorato a solide realtà, ovvero a quell’ecosistema culturale comune di personaggi e storie, costantemente aggiornato e rielaborato, declinato e sfruttato su tutte le piattaforme.
Come siano andate le cose da allora, è evidente. I grandi marchi dell'intrattenimento hanno scelto il modello Iger.
Così, Harry Potter ha ricavato dai sette libri e otto film tre spin-off cinematografici, più di trenta videogiochi, uno spettacolo a Broadway, cinque parchi a tema, un sito web interattivo e altro ancora; Star Wars ha trasformato la trilogia originale nei nove film che compongono la “Skywalker Saga" più altri due film stand-alone, un film d'animazione, quasi venti programmi TV, action figure, carte collezionabili, hotel e Dio solo sa che cos’altro. I numeri certificano il successo di questo modello. Secondo i dati di Franchise Entertainment Research, nel 2019, i film in franchising hanno costituito il 42% delle nuove uscite di Hollywood e hanno rappresentato l'83% dei proventi globali al botteghino. “L'ascesa di questa forma di intrattenimento in rete – spiega Keiles - ha avuto effetti culturali di vasta portata su tutto, dal tono e dalla struttura della trama dei film, a cosa significa essere un fan, a come calcoliamo il successo. Se Avatar sembra irrilevante oggi, ha meno a che fare con il film stesso e più a che fare con il modo in cui il mondo è cambiato intorno ad esso”.
Non che siano mancati i tentativi di espandere il marchio Avatar secondo un paradigma franchising ma, o sono stati maldestri, o il troppo tempo passato tra l’uscita del film e il suo sequel li ha depotenziati fino a mortificarli del tutto. Era stato annunciato nel 2013 ad esempio un romanzo dell’autore sci-fi Steven Charles Gould, ma l’interesse è poi scemato e il tentativo abortito. Era nato anche un gioco, "Avatar: The Game", ma i suoi server nel 2014 sono stati chiusi. Anche i giocattoli Mattel avevano problemi: gli action figure Na'vi erano prodotti in scala sbagliata e quelli umani non avevano alcun appeal. Trascurare i bambini, che sono il tuo pubblico di domani, è stato un errore da dilettanti. E poi è arrivato persino il parco, o meglio i 12 acri all’interno di Disneyworld Orlando, la cui esperienza, se paragonata al Wizarding World di "Harry Potter" degli Universal Studios, viene giudicata da Keiles “deludente”.
C’è poi, dettaglio non trascurabile, lo spirito del tempo. Il 2009 prefigurava tempi moderatamente felici: Obama aveva appena vinto le presidenziali americane con una campagna tutta incentrata sulla "speranza"; di cambiamento climatico si parlava ma i suoi effetti apparivano ancora lontani; le minacce del terrorismo globale venivano pian piano disinnescate e le guerre, salvo qualche conflitto locale ormai cronicizzato, andavano scemando.
Avatar era una promessa di cambiamento continuo. Il sol dell’avvenire hollywoodiano, così come poteva essere concepito da un cineasta immensamente ambizioso e da un sistema produttivo visionario per profitto.
Le cose sono andate diversamente. Solo per restare in ambito cinema, il 3D oggi è di nicchia, gli effetti digitali utilizzati per ridurre i costi, lo streaming domestico sta spolpando il sistema theatrical. I visionari messi alla porta per gli sviluppatori di saghe con una nutrita fanbase già esistente. La sfinge della storia, secondo i suoi imperscrutabili, disegni, ha scelto il pianeta terra, non Pandora. Se non fosse che la sfinge ha nome e cognome, ricorda Keiles: è il Telecommunications Act “che ha deregolamentato il mercato radiotelevisivo consentendo alle aziende di formare megaconglomerati. In questo mondo di fusioni e acquisizioni, il franchise è sbocciato naturalmente consentendo alle aziende di massimizzare la proprietà intellettuale attraverso le loro numerose piattaforme. Man mano che l'economia diventava più finanziaria e persino gli studi cinematografici cominciavano a comportarsi più come banche che promettevano profitti, trimestre dopo trimestre, il prodotto in franchising diventava sempre più attraente. Poiché i franchise hanno un pubblico pronto, ti consentono di gestire il rischio, permettendo alle aziende di scommettere più in grande e vincere più in grande”. Era il 1996 quando venne approvato. L’anno in cui si iniziava già a parlare di Avatar.