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2001: Odissea nello spazio, credits Webphoto
Per un istante abbiamo accarezzato l’idea di far scrivere questo articolo a ChatGPT. Perché non lo abbiamo fatto?
Ci sembrava, da un lato, di percorrere sentieri già esplorati da altri, che avevano chiesto all’Intelligenza Artificiale di esprimersi su sé stessa e di ricamarci sopra un bel momento di giornalismo. Non era il caso.
Dall’altra, esperienze pregresse in compiti di media difficoltà richiesti all’app di intelligenza artificiale avevano prodotto risultati modesti. Per ora le capacità riflessivo-letterarie di ChatGPT lasciano a desiderare. Davvero la cosa stupisce? Chiedere ad AI che cosa pensa di stessa significa non aver compreso due elementi di fondo di questa tecnologia: che è una risorsa computazionale, non riflessiva (manca della coscienza e del suo presupposto: il pensiero emotivo); che è incapace di originalità, perché fondamentalmente retrospettiva (l’infinita mole di dati su cui opera appartiene al passato). L’intelligenza artificiale sa calcolare in fretta ma manca di spirito. È infallibile quando deve compiere una scelta tra opzioni precostituite (inter-legere) ma non ha passione. Difetta del desiderio di spingersi oltre il precostituito.
“Se il pensiero è in sé un evento, in quanto lancia nel mondo qualcosa di completamente altro, di nuovo, l’AI si limita a perpetuare l’Uguale” (Byung-chul Han, Le non cose). Se, dunque, non possiede quelle proprietà che da sole garantiscono all’uomo il primato su ogni specie esistente, perché preoccuparsene? Perché si è levata nel mondo un’ondata di panico sui suoi effetti catastrofici? Persino gli inventori ne sono stati travolti, accreditando teorie apocalittiche sul ritorno del Golem in forma binaria. Geoffrey Hinton, creatore delle reti neuronali per AI, ha addirittura abbandonato il suo incarico in Google per denunciare i rischi connessi allo sviluppo di macchine capaci di prendere decisioni in totale autonomia. Hinton non crede a uno scenario alla Matrix, ovvero macchine coscienti in grado presto o tardi di ribellarsi al suo creatore. Ritiene semmai che l’AI e le sue potenzialità possano far gola a criminali nel campo della cybersecurity, per diffondere immagini, video, documenti e codici informatici falsi.
Non mancano gli scienziati che scommettono su scenari ancora più sinistri: macchine a cui è consentito di generare i propri codici informatici fino a sfuggire al controllo dell’uomo. E qualcuno si è spinto fino a chiedere il trattamento “atomico” per l’AI: maneggiarle come se fossero bombe H.
Esagerazioni? Chi può dirlo. Siamo ancora in una fase di sviluppo di questa tecnologia: sappiamo già quello che può fare, e ce ne stupiamo, ma non riusciamo ancora a immaginare fin dove potrà spingersi. Del resto, gli integrati, i felici del progresso, hanno facilità di replica quando elencano vantaggi e opportunità dell’intelligenza artificiale: dalla medicina alla ricerca scientifica, dall'agricoltura alla produzione industriale. Senza tralasciare tutti gli utilizzi inavvertiti dell’AI nella vita di tutti i giorni, dallo sblocco del telefono con riconoscimento facciale ai banali suggerimenti di Netflix e Amazon basati sui nostri comportamenti. L’AI è la chiave dell’adattabilità, della multifunzionalità e della semplicità delle tecnologie. Le aziende di intelligenza artificiale miglioreranno i punti di forza di strumenti come ChatGPT integrandoli nelle applicazioni che già utilizziamo, come Word o Google-sheet, semplificando e migliorando il modo in cui oggi interagiamo con la tecnologia.
L’AI e il cammino della civiltà
La logica che muove la corsa all’intelligenza artificiale non è diversa da quella che presiede ad altre innovazioni tecnologiche della storia: facilitazione. Il cammino della civiltà umana può essere pensato come un tentativo progressivo di trasferire il lavoro dall’uomo alle cose, perché lavorino al posto suo. Con l’intelligenza artificiale questo processo fa un ulteriore salto di qualità perché per la prima volta l’essere umano non fa solo lavorare le macchine al posto suo, ma le fa anche pensare. Probabilmente si annida qui, in questo salto senza precedenti, la ragione del disorientamento davanti all’intelligenza artificiale. Una difficoltà epistemologica in primo luogo, l’incapacità di pensarla all’interno dei tradizionali rapporti di ibridazione tra natura, cultura e tecnica.
Prima ancora di escogitare contromisure politiche (i rischi per la democrazia), economiche (la destrutturazione del mercato del lavoro) e giuridiche (il tema del copyright, di cui parliamo con Lucia Borgonzoni) dovremmo forse appellarci alla filosofia: serve un pensiero nuovo di fronte a una novità così sconvolgente. Il cinema, come ci ricorda Paola Dalla Torre nel suo excursus filmico sull’AI, è la forma di espressione che più ha anticipato e pensato l’intelligenza artificiale, problematizzandone le varie implicazioni attraverso il suo formidabile dispositivo linguistico, costituito da immagini-concetto. Eppure proprio la macchina cinema, intesa nella sua configurazione economico-produttiva, fatica a relazionarsi con la novità. La subisce con timore, gioca in difesa. Sciopera. Steven Spielberg, che pure non è un luddista, invita a non abbassare la guardia perché “non puoi far replicare l’esperienza umana dalle macchine, il cinema è emozione”. George Clooney teme che la nuova tecnologia sia destinata a far crescere le diseguaglianze. Tom Hanks è netto: “Potrei essere falciato da un bus domani e schiattare, ma le mie performance potrebbero continuare. Ci sono discussioni in corso in tutti i sindacati, in tutte le agenzie e in tutti gli uffici d'avvocatura, per stabilire le ramificazioni legali della mia faccia, della mia voce e di quelle di chiunque altro. Sono la nostra proprietà intellettuale”.
Le applicazioni dell’AI che inquietano il cinema
Il tema agita l’industry. E a ragione. Flawless, una startup di intelligenza artificiale capace di aggiornare i visemi sullo schermo (le espressioni facciali degli attori) in base ai fonemi (i suoni che gli attori producono), è destinata a provocare un terremoto nel mondo del doppiaggio. Ne abbiamo già avuto prova con un film uscito lo scorso autunno, Fall di Scott Mann, in cui interi dialoghi sono stati modificati in post-produzione senza bisogno di richiamare gli attori sul set. Implicazioni etiche a parte (si può far dire qualsiasi cosa a chiunque), è una piccola rivoluzione che, se applicata su larga scala, potrebbe davvero ovviare a gran parte dei problemi di traduzione e doppiaggio. Pensate alla fatica di riscrivere i dialoghi in un’altra lingua mantenendone senso e sincrono rispetto alle espressioni facciali degli attori. Flawless adatta non i dialoghi ma i movimenti della bocca e persino l’espressione alla traduzione più fedele. Gli americani lo chiamano “vubbing”, ovvero doppiaggio visivo.
Non è l’unico esempio di applicazione dell’intelligenza artificiale nel mondo del cinema. Sempre in tema di manipolazione vocale-facciale, Papercup è una società capace di generare voci umane sintetiche da utilizzare in doppiaggio e voice-over. Qui l’applicazione è ancora più estrema: in teoria si potrebbe fare a meno del sottotitolo e del doppiatore perché il software mira a rendere uno stesso video disponibile in qualsiasi lingua. E che dire di Digital Domain, colosso degli effetti visivi, che da tempo si sta specializzando nell’apprendimento automatico delle immagini degli attori quando devono svolgere compiti che di norma richiederebbero una controfigura? Fino ai casi limite di attori già defunti “risuscitati” dall’AI applicata all’ingegneria del cinema (i casi di Peter Cushing e Carrie Fisher nei recenti sequel di Star Wars). Secondo l’esperto di etica informatica Robert Wahl, l'intelligenza artificiale farà al cinema quello che Photoshop ha fatto alla fotografia. Corollario ontologico compreso: possiamo realmente credere a ciò che vediamo? Intanto abbiamo già i primi lavori diretti dall’AI, è il caso di The Frost, che analizza nel suo intervento Raul Gabriel spostando il discorso dal piano etico a quello estetico. Pensiero in movimento. In mezzo a tanti disastri, all’intelligenza artificiale dobbiamo quantomeno riconoscere questo: l’averci costretto a ripensare nuovamente l’uomo: cos’è, dove va e in che cosa è diverso da una macchina. Se riusciremo a pensarci diversi avremo già vinto.