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Greta Gerwig © Ben Rayner
Scusa, Greta Gerwig, scusa. Rimane che Barbie è inverecondo, ma da giurata, anzi, presidente di giuria sei assai meglio che da regista, di più, il palmares di Cannes 2024 è il tuo miglior film.
Dando la Palma d’Oro a Anora del tuo connazionale e, lui sì, indipendente Sean Baker hai risciacquato i panni sporchi della bamboletta Mattel in Mediterraneo, concedendo agli screanzati promessi sposi – lei spogliarellista, lui figlio di Putin… - del riveduto e scorrettissimo Pretty Woman l’alloro di Cannes 77.
L’amico romanista Valerio Sammarco, tra parentesi, mi dice sia la quinta vittoria consecutiva di Neon, l’influente distribuzione dei Friedkin: in attesa del campo, vincono sullo schermo, dai.
Di nuovo, brava Gerwig, che mette la foglia di fico – invero, spogliarellista e rampollo d’oligarchi ci danno dentro senza remore – alla sortita non così esaltante della Hollywood sulla Côte d'Azur: Furiosa, solo di titolo, è già flop planetario; Horizon di Kevin Costner è una saga s-western con trucco & parrucco ai Parioli; le Palme d’Onore, Meryl Streep e George Lucas (premiato dal grande sconfitto Francis Ford Coppola per un Cocoon della New Hollywood), fanno nostalgia canaglia, e poco più.
Sì, le conseguenze dello sciopero di sceneggiatori e attori mordono ancora.
E l’Italia? Parthenope, parte per il tutto della competizione tricolore, di Paolo Sorrentino ha scoperto la parte per il niente in palmares, sicché da Trieste in giù anziché far l’amore tocca accontentarsi della coproduzione minoritaria (Vivo Film) di Grand Tour, per cui il portoghese Miguel Gomes è il miglior regista del consesso. L’ultima Palma arrisa alle italiche schiatte è del 2001 con Nanni Moretti: La stanza del figlio avrebbe bisogno, si capisce, di una ritinteggiata.
Gerwig avrebbe potuto impalmare: Megalopolis, facendo di Francis Ford Coppola il primo ad aggiudicarsi tre edizioni e congiungendo idealmente la maschia New Hollywood alla Barbie Hollywood femminista; The Seed of the Scared Fig e avvicinare il femminismo mondiale alla causa fin qui più disertata, l’iraniana; iThe Substance, il (Barbie) body-horror di Coralie Fargeat, concedendo alle colleghe francesi la terza Palma negli ultimi quattro anni.
Ebbene, Coppola da potenziale premiato s’è ritrovato, appunto, premiante l’amico George; Mohammad Rasoulof ha preso il premio speciale, della serie “civilissime le intenzioni, ma il film insomma”; Fargeat s’è portata a casa il premio della sceneggiatura, e più non dimandare.
Tutto il resto, o quasi, è parimenti politico, e con afflato femmineo, femminile e femminista: l’indiana Payla Kapadia assurta al Grand Prix per l’intimista All We Imagine as Light; Emilia Pérez, regia di Jacques Audiard, che avoca a sé il premio della giuria e all’insieme del cast femminile, con l’attrice transgender Karla Sofía Gascón che “è sempre possibile cambiare per il meglio” – non ditelo a J. K. Rowling. E, come se fosse “just Ken”, il miglior attore Jesse Plemons, per Kinds of Kindess di Yorgos Lanthimos, premiato in absentia.
Potremmo dire, e tanto - programmazione a due tempi (prima settimana nefasta, poi chapeau); Therry Fremaux quasi in disarmo; lo spauracchio #MeToo, e via dicendo - di come sia stato il festival al netto del palmares, ma preferiamo prendere il buono che (c’)è stato, e addirittura chiosare con una battuta del tremendo Barbie: "And what a good job you do at beach”, dearest Greta Gerwig…