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Werner Herzog © Wanted Cinema
Jeder Für Sich und Gott gegen alle. Sino a oggi, questo cupo monito (che capovolge il proverbio “Ognuno per sé e Dio per tutti” trasformandolo in “Ognuno per sé e Dio contro tutti”) era solo il titolo originale del quinto lungometraggio di Werner Herzog, da noi distribuito come L’enigma di Kaspar Hauser, scelta che, se da un lato chiarisce subito l’argomento della pellicola, dall’altro sminuisce la lucida spietatezza che contraddistingue le opere dell’autore bavarese. Invece, d’ora in poi, Ognuno per sé e Dio contro tutti (Feltrinelli, pagg. 368, € 22,00) è anche la terza opera autobiografica di Herzog pubblicata in Italia, dopo Sentieri nel ghiaccio (Vom Gehen im Eis, 1978) e La conquista dell’inutile (Eroberung des Nutzlosen, 2007), dedicati rispettivamente al viaggio a piedi intrapreso dal regista nell’inverno 1974 (per raggiungere l’anziana Lotte Eisner a Parigi) e all’infernale lavorazione di Fitzcarraldo (1982).
Compiuti ottantuno anni e realizzata una serie di film che “sono sufficienti vie d’accesso, brecce nella mia fortezza, che già solo per questo è spalancata e indifesa”, Herzog ha deciso che è giunto il momento di raccontare la propria vita, sia per evitare che altri ci pensino altri al suo posto, sia per poterlo fare in prima persona e alle proprie condizioni.
Come scrive Werner nella prefazione, “il titolo di questo libro è lo stesso del mio film su Kaspar Hauser, ma quasi nessuno è riuscito a renderlo correttamente. È possibile che assomigli troppo a quel lupo solitario che sono, anche se in realtà ho quasi sempre avuto intorno a me molti colleghi, la famiglia, le donne. Di tutti loro, tranne pochissimi, nulla verrà detto in questo libro. Sono, nessuno escluso, indipendenti, forti, belli e intelligenti. Senza di loro non sarei che l’ombra di me stesso”.
Definire pericolosa la vita di Herzog (nato a Monaco poco prima della fine della seconda guerra mondiale, cresciuto in povertà e anarchia nel villaggio bavarese di Sachrang e “fermamente convinto che non sarei mai arrivato ai diciotto anni”) potrebbe sembrare un eufemismo, eppure è proprio in questo crogiolo di rischi, sofferenze e privazioni che si forgiano la filosofia, la morale e il rigore artistico di colui che, insieme a Wim Wenders e a Rainer Werner Fassbinder, sarebbe divenuto il padre del Neuer Deutscher Film (Nuovo Cinema Tedesco).
Va detto che, con una forza di volontà minore, Herzog sarebbe potuto finire su una pessima strada, considerando che “c’era qualcosa di oscuro in me. Anche se non me lo ricordo, devo aver colpito qualcuno con un sasso, e non solo una volta, per questo mia madre era costantemente in pensiero. Ero introverso, silenzioso, ma qualcosa infuriava dentro di me; insomma, c’era un non so che in me che giustificava la sua preoccupazione. Ho imparato a tenere sotto controllo il mio carattere solo in seguito a un tremendo episodio avvenuto nella nostra famiglia”.
L’episodio in questione è l’accoltellamento del fratello Till, compiuto per futili motivi a tredici-quattordici anni, che lascia a entrambi dei segni indelebili: a Till le cicatrici fisiche, a Werner l’enorme senso di colpa e di orrore per se stesso, motivo per cui “da quel giorno ho imparato a controllarmi, con autodisciplina assoluta. Tutt’oggi, una buona parte della mia persona non è altro che pura disciplina. Tra me e Till c’è allo stesso tempo un’incrollabile asperità dei modi, spesso scherzosa, che a volte rende l’intimità del nostro rapporto incomprensibile agli estranei”. Per un animo inquieto come il suo, ben presto l’istinto alla fuga, al viaggio e all’esplorazione diviene la spinta primigenia per conoscere e capire, oltre i limiti imposti dalla scuola e dalle aspettative sociali, alla ricerca di una dimensione atavica, in cui il tempo e lo spazio si fondono in un’unica entità circolare, mentre il confine fra realtà e immaginazione si dissolve progressivamente.
Le cose rimaste stabili nella sua esistenza vagabonda sono poche, ma fondamentali: “una visione del mondo che non mi ha mai abbandonato e – come un buon soldato – il senso del dovere, la lealtà, il coraggio. Ho sempre voluto presidiare gli avamposti che gli altri abbandonavano preferendo la fuga”. Dalle ceneri della Germania sconfitta ai vulcani attivi sparsi per il pianeta, dalle Alpi alla grotta Chauvet, dall’Africa all’Amazzonia, sono tanti gli avamposti sperduti – della Terra e dell’animo umano – che il regista ha scelto di pattugliare (privatamente) e quindi di narrare (professionalmente), alla scoperta degli anfratti più profondi del paesaggio naturale e dell’animo umano.
E colpisce anche il fatto che Herzog (spirito libero, nemico di ogni costrizione accademica e vincolo convenzionale) non abbia avuto alcun problema a confrontarsi con qualcosa di apparentemente “fittizio” come il teatro lirico: un ambito, per lui inizialmente alieno, ma che ha continuato ad approfondire attingendo (come sempre) alle suggestioni derivate da esperienze reali, mantenendo piena coerenza con quello sguardo documentaristico-metafisico che ne ha fatto la fortuna in ambito cinematografico.
E, se è pur vero che nell’universo narrativo di Herzog (ancestrale e sospeso) “vero” e “verosimile” sono due termini che non necessariamente coincidono, lo è altrettanto la domanda: ma, in fondo, è così importante scinderli?