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Donald Trump
Quattro anni fa, l’assalto a Capitol Hill; oggi, Los Angeles che brucia. Il confine tra farsa e tragedia è sempre più labile, sì, ma in queste immagini sembra esserci il destino di chi, per lavoro e vocazione, deve produrre immaginario. Le allegorie sono perfino sfacciate: prima un tentativo di colpo di Stato attuato dai sostenitori di Donald Trump, con il leader acchittato da “sciamano” a evocare una cultura retriva, una mascherata violenta, l’attacco alle istituzioni; ora gli incendi che devastano le aeree urbane abitate anche da star soprattutto liberal, con la foto iconica trovata subito nell’insegna di Hollywood avvolta dalle fiamme (ma è un falso creato con l’intelligenza artificiale: quando sarebbe stata scattata non c’erano fiamme nei dintorni della collina; stessa cosa vale per l’immagine dell’Oscar rinvenuto illeso dopo un rogo).
Dal thriller cospirazionista siamo passati al disaster movie, con i divi sfollati che fuggono dalla città in fiamme mentre Trump si appresta a giurare da presidente per la seconda volta. Impossibile non leggere questa concatenazione di eventi come la rappresentazione più eloquente di un passaggio decisivo. Che non è la sconfitta della Hollywood democratica schierata con il candidato perdente: è già successo prima di Kamala Harris e succederà ancora, la democrazia dell’alternanza è un valore della politica statunitense.
È, piuttosto, qualcosa di più complesso: da una parte, la debolezza di un cinema liberal che, dopo il decennio di Obama intriso di storie antirazziste e conciliatorie, non ha saputo trovare una narrazione all’altezza della sfida; dall’altra, il riallineamento di molte figure storicamente vicine all’area dem che hanno deciso di finanziare Trump.
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Creata con AI
il caso The Apprentice
La vicenda di un film come The Apprentice, dedicato all’ascesa del tycoon, era già emblematica: il team legale di Trump ha cercato in tutti i modi di bloccarlo (lo stesso presidente l’ha definito “disonesto, diffamatorio, disgustoso” e realizzato da “feccia umana”), uno dei finanziatori si è sentito ingannato (l’imprenditore Daniel Snyder, convinto fosse un film pro Donald), lo star system hollywoodiano si è intimorito (il protagonista Sebastian Stan ha rivelato che nessuno dei suoi colleghi si sarebbe disponibile a discutere pubblicamente del film e della sua prova). Il motivo è preciso: una sequenza di The Apprentice fa vedere Trump che stupra la prima moglie, Ivana, un fatto da lei stessa denunciato in sede di dibattimento per il divorzio (poi ritrattato dalla stessa).
Ora, non è che altri film militanti abbiano avuto un ruolo decisivo nel voto, pensiamo a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore che, nonostante l’ottimo impianto retorico, non impedì un secondo mandato a George W. Bush. Ma il discorso non vale per la parte repubblicana, il che è paradossale considerando quanto i democratici siano più attrezzati e presenti sul fronte hollywoodiano.
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Sebastian Stan e Jeremy Strong in The Apprentice
(Apprentice Productions Ontario Inc./ Profile Productions 2 Aps / Tailored Films Ltd)Anti-Hillary
Nel 2016, per esempio, uscirono alcuni film contro la candidata Hillary Clinton, da 13 Hours di Michael Bay che raccontava l’attacco islamico al consolato statunitense a Bengasi puntando il dito contro l’incompetenza e l’ignavia dell’allora Segretaria di Stato, a Weiner, documentario di Elyse Steinberg e Josh Kriegman che ricostruiva gli scandali sessuali del popolare politico democratico.
E soprattutto Hillary’s America: The Secret History of the Democratic Party, in cui Dinesh D’Souza, celebre opinionista indiano-americano di estrema destra già autore di 2016: Obama’s America, demoliva la storia del Partito Democratico dalle origini alla designazione di Clinton. Costato 5 milioni, ne incassò più di 13, diventando il documentario con il maggior incasso dell’anno.
Hillary non ha perso per colpa di D’Souza, ma l’attivismo di D’Souza – che quattro anni dopo ci ha riprovato con Trump Card, doc fondato su notizie false come ammesso dallo stesso autore, e quest’anno è tornato con Vindicating Trump – ci dice qualcosa di molto preciso: esiste un audiovisivo di propaganda, esplicita o sommersa, che accompagna il candidato repubblicano più di quanto il “cinema di sistema” faccia con quello democratico.
Perfino l’apporto dei coniugi Obama, sempre mediaticamente potenti, sembra appannato: la loro casa di produzione, Higher Ground, dichiaratamente pensata per dare voce a chi non ce l’ha, ha vinto un Oscar (il documentario American Factory) ma stenta a dialogare con il pubblico. I loro film, come Rustin dedicato all’attivista civile, sono distribuiti da Netflix, da sempre impegnata a costituire una library “democratica” (Il processo ai Chicago 7, Passing, The Harder They Fall, Shirley, Ben Crump: lotta per i diritti civili, le trasposizioni del drammaturgo afroamericano August Wilson). Chissà ancora per quanto, considerando l’indirizzo di altre major.
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Dinesh D'Souza
contro la “cultura woke”
La presa di posizione della Disney è emblematica: quando l’amministratore delegato Bob Iger dice che i flop della casa sono imputabili all’eccesso di “cultura woke”, sta trovando l’alibi per coprirsi a destra, promettendo un presunto “ritorno alle origini” che non può incontrare il favore di un pubblico – e di un elettorato – che punta molto sulla nostalgia di un’arcadia perduta. Una prospettiva sintonizzata su quella di Elon Musk, presidente ombra e faro ideologico, e di capitani d’industria in realtà interessati solo al mantenimento del capitale, da Mark Zuckerberg a Jeff Bezos tutti scopertisi trumpiani di ferro.
La nostalgia del “Make America Great Again” è tutta racchiusa nel biopic Reagan, in cui un altro fan dell’attuale presidente, Dennis Quaid, si trasforma in Ronald: girato nel 2020, bloccato per motivi non meglio precisati, riemerso ad agosto 2024, boicottato da Facebook che ne limitò la pubblicità perché avrebbe potuto influenzare la campagna elettorale (come si cambia per non morire…), l’agiografico Reagan è riuscito comunque a incassare 30 milioni di dollari, con un pubblico composto perlopiù da bianchi, anziani e del sud).
Reagan è un po’ il simbolo di questo cinema conservatore che non solo cerca di legittimare il tycoon in una storia politicamente più solida, ma rimette al centro una serie di valori che la cosiddetta cultura woke – e, più in generale, il mainstream – avrebbe scialacquato.
È il caso di film come Sound of Freedom – Il canto della libertà su un ex agente governativo che lotta contro il traffico di esseri umani minorenni in Colombia (14 milioni e mezzo di budget, 250 milioni al botteghino mondiale); Infidel dove la vicenda di un giornalista americano imprigionato in Iran costituisce l’occasione per una rappresentazione fortemente islamofoba; Am i Racist? in cui il satirico conservatore Matt Walsh prende in giro la sensibilità fondata sui concetti di diversità, equità e inclusione (con più di 12 milioni al box office, è il documentario con il maggiore incasso del 2024).
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Senza dimenticare Elegia americana, biopic dal memoir dell’attuale vicepresidente J.D. Vance, punto di riferimento della destra e plausibile erede di Trump: una storia che dava voce a quello che molti – con un malcelato disprezzo classista – chiamano “white trash” cioè i bianchi dimenticati e non garantiti dal sistema, svelandone le angosce, le precarietà, le zone d’ombra, i disincanti. Nonché tentativo (fallito) da parte di un regista liberal come Ron Howard di accompagnare gli americani nella transizione dalla violenza imposta dal linguaggio di Trump a una possibile riappacificazione patrocinata da Joe Biden sul terreno civile delle differenze.
A parte le vicende biografiche, le battaglie sono sempre le stesse: l’omotransfobia associata alla pedofilia, la xenofobia malcelata dalla difesa dei patri confini, la strumentalizzazione della religione cattolica, il patriottismo eroico via militare, il negazionismo di varia natura dal riscaldamento globale al Covid, il ritorno a un presunto passato glorioso.
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Mel Gibson
(Karen Di Paola)Gli ambasciatori a Hollywood
Temi in un certo senso incarnati anche dai tre “ambasciatori” di Trump a Hollywood (vago il mandato: “dovranno farne un posto più grande, migliore e forte di quanto non lo sia mai stato”): Mel Gibson, che perlomeno ultraconservatore lo è sempre stato e sta per realizzare il sequel de La Passione di Cristo (con quel Jim Caviezel ormai icona della destra e cospirazionista convinto); Jon Voight, trumpiano della prima ora; e Sylvester Stallone, già orientato ma non schierato nel 2016 (“Un personaggio dickensiano, larger than life”) e ora talmente pro Donald da paragonarlo a Rocky Balboa (che sia una ripicca ad Arnold Schwarzenegger, ex governatore della California schieratosi con Kamala Harris?).
Non sono gli unici esponenti dello star system ad aver appoggiato Trump: James Woods, Roseanne Barr, Zachary Levi, Scott Baio, Rusell Brand, Vincent Gallo, Kelsey Grammer, Rob Schneider, David Mamet, Kanye West. A parte quest’ultimo, non proprio nomi di grido almeno negli ultimi tempi, tutti un po’ accomunati dall’insofferenza verso il mainstream, ma a quanto pare le porte del tycoon sono aperte.
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Yellowstone
(Paramount+)il regno di Taylor
Ma forse il contributo audiovisivo più efficace perché carsico lo ha dato Taylor Sheridan. Da Yellowstone, una delle serie più popolari degli ultimi anni al punto da generare due prequel (1883 e 1923), a Landman (e non solo: c’è anche Tulsa King con, toh, Stallone), questo cowboy lontano da Hollywood, un caratterista diventato il più rilevante degli showrunner, ha colto se non anticipato lo spirito del tempo.
Yellowstone non ha un’ideologia esplicita, non manca di slanci anticapitalisti ma resta vagamente a disagio con il progressismo, è dalla parte degli allevatori e porta avanti l’idea di un ambientalismo non ideologico. Sheridan sta offrendo al pubblico un’antologia americana intrisa di cultura conservatrice e consapevolezza libertaria, “turborealismo” (un monologo su come estrarre petrolio sia un male necessario è diventato virale dopo essere stato condiviso dal senatore texano Ted Cruz) e neoimperialismo (ma solo per contrastare il nemico cinese), muscolarità (il titanismo maschile) ma senza sessismo (le donne di Sheridan non sono deboli né ancillari, come la Zoë Saldaña di Lioness, una serie che vanta nel cast gente come Morgan Freeman, Nicole Kidman, Jon Hamm e Demi Moore).
Tuttavia, è lui stesso a negare che Yellowstone sia un “red-state show”, come ha dichiarato a The Atlantic: “La serie parla del trattamento dei nativi americani, dell’avidità aziendale, della gentrificazione dell’Ovest, dell’accaparramento delle terre. È uno show da stati repubblicani?”. Ma Sheridan, uno “che si è fatto da solo” e ha conquistato il successo dopo i quarant’anni mantenendo “i piedi per terra” (cioè nel suo ranch), gioca molto su questa ambiguità politica: non si è mai espresso davvero pro-Trump e le sue posizioni sono state un po’ criptiche e un po’ vagamente populiste.
Sheridan è il contrario di Ryan Murphy (guarda caso contrattualizzato anche da Netflix), con il quale condivide la bulimia creativa e il gusto del racconto (tutto sommato sempre sullo stesso schema): non è “woke”, qua e là si dimostra scettico verso il mainstream dei grandi giornali e delle istituzioni, non nasconde l’ostilità per la metropoli e si dichiara nostalgico del west(ern). Dire che Trump ha vinto grazie a Sheridan è forse sbagliato dire che Sheridan imperversa in un’America che ha votato Trump è un dato.