Come è facile immaginare tra i pionieri del cinema africano e arabo, dal Nord al Sud del continente fino ai paesi arabi del Medioriente, le donne rappresentavano una rara eccezione. Ma il cinema racconta spesso il mondo che cambia e, malgrado gli ostacoli ancora imposti dai retaggi di società patriarcali e conservatrici, negli ultimi decenni giovani registe provenienti queste regioni si sono affermate nel panorama del cinema mondiale conquistando i riconoscimenti più ambiti dei festival internazionali.

Complici di questo cambiamento sono state le rivoluzioni popolari iniziate nel 2011 e la rivoluzione 4.0, la cosiddetta High Tech Liberation, innescata dal recente arrivo di internet ad alta velocità, che hanno vivacizzato la produzione culturale e artistica. La realtà politica e sociale rimane la principale fonte di ispirazione del cinema al femminile delle nuove generazioni: il fondamentalismo islamico, i conflitti, la questione migratoria, le leggi del patriarcato, le convenzioni sociali, i diritti negati, ma il linguaggio è cambiato rispetto all’approccio più didattico e moralistico dei pionieri.

Le giovani cineaste ci sorprendono con voci originali, personali e una visione acuta e appassionata sulla realtà e si fanno spesso portatrici della speranza di un cambiamento sociale e culturale nel loro Paesi. Il cinema indipendente diventa il loro terreno di autoaffermazione dove sperimentano percorsi inediti di rappresentazione della donna africana e araba sugli schermi e sperimentano nuovi linguaggi come quello dell’ibridazione del documentario con la finzione.

Kaouther Ben Hania (foto di Karen Di Paola)
Kaouther Ben Hania (foto di Karen Di Paola)
Kaouther Ben Hania (foto di Karen Di Paola)

Penso in primis a Kaouther Ben Hania, prima donna araba due volte candidata all’Oscar: come Miglior film internazionale nel 2021 con L’uomo che vendette la sua pelle (Premio Orizzonti per il miglior attore a Venezia 2020, il film è distribuito in Italia da Wanted Cinema) e quest’anno in corsa per l’Oscar al miglior documentario con il suo ultimo film Four Daughters (vincitore a Cannes 2023 dell‘Oeil d’Or al miglior documentario), un’opera tra fiction, documentario e metacinema, che mette a nudo, con una lucidità senza precedenti, le dinamiche della radicalizzazione islamica delle donne e condanna la condizione femminile di oppressione e violenza nella società tunisina. Sono giovani registe di talento determinate a inserire elementi di rottura nella riflessione sul cinema al femminile.

Pensiamo alla marocchina Leila Kilani e alla sua opera prima Sur la planche (Quinzaine des réalisateurs Cannes 2011), un film che non si limita a rompere ma scardina letteralmente l’immaginario coloniale della donna araba: le sue bad girls di Tangeri sono giovani operaie urbane e combattenti, disposte a tutto pur di cambiar vita. A distanza di undici anni Yasmine Benkiran in Queens (2022, selezionato alla SIC 2022) raccoglie l’eredità di Kilani con la fuga on the road femminista di un insolito trio di donne in rivolta contro le tradizioni patriarcali. Anche dall’Africa sub-sahariana le cineaste osano affrontare tabù finora intoccabili, come quello della omosessualità considerata un reato perseguibile in molti paesi del continente.

La kenyana Wanuri Kahiu mette in scena per la prima volta una storia d’amore lesbico in Rafiki (Un Certain Regard Cannes 2018 e 19 premi in tutto il mondo), un film coraggioso che cita i generi romance e musical. La contaminazione di generi è un’altra cifra stilistica percorsa dalle registe africani della nuova generazione. Dal lato est del mondo arabo, quello mediorientale, due registe affrontano i conflitti che infiammano la regione sotto una luce inedita.

Rafiki
Rafiki

Rafiki

(Webphoto)

Vincitrice di due premi alla Mostra del cinema di Venezia, la siriana Soudade Kaadan mostra nel suo primo film The Day I Lost My Shadow (Leone del Futuro 2018) la dimensione più intima e quotidiana del vissuto della guerra (una madre costretta a uscire di casa per cercare una bombola del gas), con un registro realistico che dinnanzi all’orrore della guerra si stempera in una visione onirica e simbolica; nel secondo film Nezouh (Premio del pubblico a Orizzonti Extra alla Mostra di Venezia 2022 - distribuito da Officine Ubu) guarda al terribile assedio di Damasco con gli occhi di un'adolescente e adotta uno sguardo ancora più innovativo sulla guerra che contamina il genere della commedia con la fiaba surreale e il cinema di empowerment femminile.

Anche Annemarie Jacir prima donna palestinese a girare un lungometraggio di finzione nel 2008, un volto noto nei maggiori festival internazionali, con i suoi tre lungometraggi ha scelto il filtro delle storie intime e familiari per raccontare le vessazioni sulla popolazione palestinese in territorio israeliano sfuggendo da impostazioni ideologiche e partendo da attriti più intimi come quello tra padre e figlio nel suo ultimo film Wajib - Invito al matrimonio (distribuito da Satine Film).

Se l'industria del cinema mondiale relega ancora troppo spesso le donne arabe e africane a ruoli convenzionali e stereotipati, è dal cinema indipendente delle registe di queste regioni che arriva una contro-narrazione precisa. Siano esse ribelli, oppresse o combattenti, sono diventate le vere protagoniste del loro tempo.