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Enrique Irazoqui con Pier Paolo Pasolini sul set di Il Vangelo secondo Matteo
Il Vangelo secondo Matteo compie sessant’anni. Al 42° Torino Film Festival, nella sezione Zibaldone, Davide Milani presenterà il film lunedì 25 novembre alle 17:30 alla Sala 2 del Cinema Romano.
‘A plûf un fûc
scûr tal mè sèn :
no l’è sorèli e no l’è lum.
Dis sènze clâr ‘a pàssin sèmpri, jo soi di ciâr, ciâr di frutìn.
S’a plûf un fûc scûr tal mè sèn, tu clàmis, Crist, E SÈNZE LUM”.
(Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni senza chiaro passano sempre, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, tu chiami, Cristo, e senza luce).
Ha vent’anni Pier Paolo Pasolini quando nel 1942 compone La domènia uliva poesia in friulano, lingua della madre, in cui confessa la propria contraddittoria attrazione per Cristo, un fascino che “piove” come “fuoco scuro nel mio petto, tu chiami, Cristo ma SENZA LUCE”.
Sono scritte in maiuscolo anche in originale le ultime parole della lirica. Un carattere, quello tipografico, in sintonia con il tono di tutto il testo per esprimere invocazione, rabbia, ribellione, delusione nei confronti di quel Gesù che fin dalla gioventù lo provoca. Non è quindi la sfida artistica di un regista intellettuale quella di misurarsi con un film su una delle personalità più grandi della storia dell’umanità, Cristo, ma la risposta ad un costante “tormento”. E la prontezza con cui Pasolini interpreta la circostanza che gli farà intraprendere l’avventura della realizzazione del film Vangelo secondo Matteo (nella sezione Zibaldone del Torino Film Festival) lascia intendere come quel desiderio di affrontare artisticamente da vicino la figura di Gesù covasse – magari inconsapevolmente – da tempo in lui.
Come spiega lo stesso PPP: “Nel ’62 mi trovavo ad Assisi il giorno in cui è arrivato inopinatamente Giovanni XXIII, il che ha causato un blocco definitivo del traffico della cittadina e questo mi ha costretto a stare in casa, nella Pro Civitate Christiana. Bloccato in camera, non avevo altro da fare, prendo un piccolo Vangelo che stava sul tavolino e ho letto, ho cominciato da Matteo perché era il primo ed è lì che è avvenuto il trauma. Poi ho riletto anche gli altri Vangeli, ma il trauma, l’idea del film, mi è nata in Matteo”.
Si mette subito al lavoro, ne parla con il produttore Alfredo Bini e chiede aiuto al direttore di Pro Civitate Christiana, don Giovanni Rossi, con una lettera dalla quale si apprende l’urgenza sul progetto: “Io non posso vivere senza fare un film su Gesù Cristo. La colpa è vostra perché, quando sono venuto qui, mi avete messo in camera il libro dei Vangeli che ho letto avidamente”. Don Rossi gli mette a disposizione il giovane biblista don Andrea Carraro e un volontario, Lucio Caruso, che intesserà un fitto rapporto con il regista.
Non è questo il primo contatto cinematografico tra Pasolini e Cristo. Ne troviamo traccia già nell’opera prima, Accattone (1961) e segno più esplicito nella Ricotta (1963) a cui Pasolini lavora mentre si interroga sulla possibilità di realizzare il suo “Vangelo”. Soggetto è un ipotetico film da realizzare sulla “Passione di Cristo”, quasi una prova in scena del film successivo, in cui si trasfigura in Orson Welles, il regista “per finta”. Una delle comparse, il “sottoproletario” Stracci, durante le pause del film nel film corre sul set per procurarsi il cibo per sopravvivere alla fame sua e della famiglia. Dopo un’abbuffata di ricotta il poveraccio, scelto per interpretare il Buon Ladrone, morirà di indigestione sulla croce, accanto al Cristo: quasi un appello redentivo di un un ultimo verso il Nazzareno morente. È l’apice espressivo per il regista della verità su Gesù Cristo.
Il fiume di polemiche (inchiesta, interrogazione parlamentare, censura, ritiro dalle sale, irritazione ecclesiale) generato da questo lavoro prova Pasolini ma non lo scoraggia, troppo forte è il fascino: “Io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo”.
Da qui la decisione di realizzare un’opera che fino ad allora non aveva eguali nella filmografia su Gesù. Proprio in una lettera a Caruso comprendiamo il suo intimo e originale intento: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo San Matteo, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. È questa altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica”.
È anche una mossa prudenziale, per evitare scandali. “Vorrei che la mia ispirazione poetica, non contraddicesse mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello - sia pure irraggiungibile - per tutti”. Questa fascinazione “senza la luce” della fede consegna alla storia del cinema un film unico sulla figura di Cristo, una drammatica “sacra rappresentazione” che fa entrare lo spettatore in contatto con la forza rivoluzionaria delle sue parole e idee, grazie anche alla magnifica voce di Enrico Maria Salerno che doppia Enrique Irazoqui / Gesú.
Un’opera che non è catechistica: le musiche che spaziano da Bach alle ballate sacre etniche, le scelte di regia con la spiccata “visibilità” della macchina da presa, il cast di attori scelti principalmente tra gli amici intellettuali (e la madre Susanna ad interpretare la Madonna), ne fanno un lavoro dal forte sapore politico: questa la sua urgenza “spirituale”, secondo la personalissima accezione del poeta e regista di Casarsa. Oggi, la lettura liturgica del testo sacro, anche per la quasi inesistente cura con cui viene proclamato nelle chiese, spesso spegne la forza di questa Parola, soprattutto a causa della proposizione per brani isolati dal contesto: la visione del Vangelo pasoliniano ne è potente antidoto e necessario compendio per la comprensione.
Recentemente il cardinale Gianfranco Ravasi ha affermato che “se Cristo tenesse oggi in piazza il discorso delle beatitudini, arriverebbe la Digos a chiedergli i documenti”. Sessant’anni prima Pasolini è dello stesso parere e ne motiva la ragione, visibilissima nella vetta stilistica di tutto il film, il discorso della montagna, appunto: “Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le ”sproporzioni” delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile, discorso della montagna), la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione del propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologie senza religione”.
Un intento che trova perfetta concretizzazione nel film ma che ne evidenzia l’unico vero limite, come scrive nella sua recensione alla prima uscita in sala l’Osservatore Romano (anche se cinquant’anni dopo, cambiando la rotta lo definirà “forse la migliore opera su Gesù nella storia del cinema”): “fedele al racconto, non all’ispirazione del Vangelo”.