“Il regista ha la possibilità di fare apparire dai frammenti della realtà - la materia bruta, come direbbe Robert Bresson - un'energia spirituale, un mondo invisibile tra il visibile. L’assegnazione del Premio Bresson straordinario ad Eugène Green nell’ambito del Festival di Cannes è stata l’occasione per una riflessione fondamentale sul senso dell’arte cinematografica. “La cultura è cibo per lo spirito, e quando è assimilata si può utilizzarla in una maniera personale. Non credo possa esistere una cultura senza spiritualità, altrimenti l’uomo non esisterebbe, così come la sua cultura”. Fondazione Ente dello Spettacolo assegna tradizionalmente il premio Robert Bresson a Venezia, in occasione della Mostra internazionale di Arte cinematografica. Quest’anno però abbiamo deciso uno sconfinamento per celebrare uno dei più grandi registi della storia, il francese Robert Bresson nel 25° anniversario della sua morte. Il Premio a lui intitolato, infatti, è stato istituito da Fondazione Ente dello Spettacolo con illuminata prontezza contestualmente alla morte del grande cineasta.

Per l’occasione, a identificare l’artista da premiare, è stata Mylène Bresson, la vedova del regista, custode della sua eredità. “Le opere di Green offrono una testimonianza significativa per la loro sincerità e la loro intensità, del difficile cammino di ricerca di senso della spiritualità della nostra vita" ha spiegato motivando la sua scelta. Una designazione in cui noi ci rispecchiamo, e non solo per deferenza. La coincidenza del 25° anniversario dall’esordio alla regia di Green con Toutes les nuits marca ulteriormente l’opportunità di questa scelta. Mentre ci stiamo confrontando per identificare il vincitore della prossima edizione del premio Bresson, che come ogni anno assegneremo durante la Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia, la riflessione posta da Eugène Green a Cannes ci spinge a tornare - come lui stesso ci ha invitati a fare - alla lezione di Bresson.

Nel Diario di un curato di campagna (1951) trasposizione dell’omonimo romanzo di Georges Bernanos, il regista porta sullo schermo la sua convinzione: la grazia divina è talmente potente da fiorire anche nel campo dell’umanità devastata dal male fisico e morale, come testimonia la sentenza finale dell’opera: “Tutto è grazia”. E dove si scorge questa grazia? Nella ricerca intellettuale? Nell’indagine dello straordinario o del prodigioso? No, nel posare lo sguardo sul reale lasciando che da qualche minuscola frattura, da un dettaglio, uno sguardo, il trascendente cominci a sprigionarsi, irradiando la sua energia spirituale. “Non devi cercare, devi attendere”: con questa massima Bresson ha educato il suo sguardo ed il nostro nella sua filmografia di soli quattordici titoli che però hanno impresso all’arte cinematografica un’impronta indelebile. Nel suo cinema “totale”, mentre tutto è ridotto all’essenziale, niente è lasciato al caso, nulla è semplicemente funzionale al meccanismo filmico ma tutto assume un senso relativo al significato dell’opera: ogni riga di scrittura, ogni dettaglio di scenografia, ogni squarcio di luce, ciascuna azione dell’attore (o meglio, del “modello”), ciascun suono o inserzione musicale sono il punto di contatto tra la crudeltà del reale e la forza del significato, tra la fatica spesso drammatica dell’esistenza, e la luce e la potenza trasformatrice della resurrezione.

Un condannato a morte è fuggito (1956, premiato come miglior regia proprio a Cannes) è - ancor più delle altre sue opere - il manifesto di questa visione. Bresson riduce la reale vicenda di Andrè Devigny all'essenziale, riportando i fatti senza alcun ornamento, concentrandosi sui gesti del protagonista, su pochissimi ma fondamentali oggetti di scena. Gli attori, tutti non professionisti, sono costretti da Bresson a non assumere alcuna enfasi recitativa per essere come dei modelli. Ambientato nella Francia sottoposta alla dominazione nazista, racconta di Fontaine, un membro della resistenza condannato a morte, e della sua lotta per la libertà negli anni della Seconda guerra mondiale. Speranza, solidarietà, fiducia sono gli ingredienti di un racconto soprattutto visivo ma altamente simbolico in cui la spiritualità e la grazia sono profondamente incarnati dentro una vicenda puntuale, senza forzatura alcuna, a tal punto da divenire denuncia delle imposizioni di quel regime politico che drammaticamente Bresson sperimentò nella resistenza.

Il cinema per Bresson è “di sua natura immenso” ed è capace accogliere nella sua trama anche l’ingresso di Dio. È per questo – dirà ancora – che mettere in scena è mettere in ordine la realtà svelando il senso trascendente che custodisce nel suo intimo: così anche un cucchiaio diviene l’emblema del desiderio di libertà compiuta che ciascun essere umano porta nel cuore. È proprio con questa suggestione che l’Ente dello Spettacolo passa dal premio assegnato a Green a Cannes al Lecco Film Fest che sta organizzando sul lago di Como dal 2 al 7 luglio. Sarà proprio Un condannato a morte è fuggito di Bresson, presentato dall’attore e scrittore Giacomo Poretti, ad aprire questa quinta edizione intitolata “Signora libertà”: affinché il miracolo si ripeta ancora, e l’invisibile con la sua potenza si manifesti dentro gli eventi più crudi e tragici che la realtà di questi tempi ci consegna.