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Niente da perdere
“Il soggetto mi sembrava ideale per parlare di cosa avviene all’interno di un nucleo familiare quando si è costretti a separarsi”. Così la giovane regista Delphine Deloget a Roma per presentare la sua opera prima:
Niente da perdere. Ospitato in Un Certain Regard a Cannes 76, in anteprima alla XIVesima edizione del Rendez Vous e dal 1 maggio in sala con I Wanted, il film racconta le conseguenze imprevedibili scatenate da un piccolo incidente domestico che si trasforma ben presto in un dilemma morale tra burocrazia e macchina amministrativa.Protagonista di questo dramma sociale è Sylvie, interpretata dall’attrice francese Virginie Efira, una donna emancipata e una madre appassionata che cresce da sola i suoi due figli: Sofiane e Jean-Jacques. Denunciata per inadempienza nella cura dei figli, il bambino più piccolo viene dato in affidamento in attesa di processo.
“Questa storia mi ha permesso di analizzare il rapporto di questa donna non solo con il bambino più piccolo, ma anche con l’altro figlio- racconta la regista-. Il procedimento di affido è qualcosa che terrorizza qualunque genitore. Per me era interessante esplorare questo momento e capire quando la società decide di intervenire all’interno del privato di ciascuno di noi e di una famiglia. Volevo capire che tipo di sguardo viene rivolto a una madre, a una donna, nel modo che ha di educare i propri figli e quando questo fa saltare in aria dei meccanismi perché mette in movimento un ingranaggio molto complesso sociologico e politico. Non ho voluto dare un giudizio, ma solo constatare quel che avviene nella nostra società”.
E sul suo personaggio Virginie Efira dice: “Sylvie per me è una madre esemplare. Sta in ascolto dei suoi figli e delle loro esigenze tracciando anche dei binari e dando alcune indicazioni precise. Ha coraggio e forza. Spesso gli uomini comprendono l’intervento dei servizi sociali in una situazione di questo tipo. E mi piace che Delphine l’abbia resa priva di sensi di colpa per lo stile di vita che conduce. È una donna sola che si rimbocca le maniche e cerca di fare del suo meglio per tirare su i suoi due figli. È un personaggio in contrasto con quello che dice la società della donna, ovvero una madre pura e devota nei confronti della famiglia. Appena c’è una mancanza da parte sua si apre una faglia e intervengono i servizi sociali”.
Nel film i servizi sociali le portano via il bambino e Sylvie inizia una dura battaglia con la macchina amministrativa e giudiziaria. “Temevo che ci potessero essere delle reazioni negative interrogando queste istituzioni virtuose- racconta la regista-. Ma le reazioni negative non sono arrivate dai servizi sociali, piuttosto da chi ha sempre bisogno di distinguere i buoni dai cattivi e non mette in discussione questi meccanismi ben congegnati. I servizi sociali si sono molto riconosciuti nel tipo di ritratto che ho tracciato. È vero che parlano così. In democrazia è importante interrogare le istituzioni altrimenti è davvero l’inizio della fine”.
E poi: “Non giudico mai i personaggi che racconto, ma ho un punto di vista sul tema trattato. Ho una prospettiva sulla società e su come questa possa metterli sul banco degli imputati. Ho cercato di immedesimarmi in tutti i personaggi del film: in Sylvie, nei suoi fratelli, nei bambini e nei servizi sociali. Ognuno ha le sue ragioni”.
E sulla scelta dei ruoli da interpretare l’attrice Virginie Efira dice: “Non si sceglie mai un ruolo, ma si sceglie un film. Quando ho letto la sceneggiatura mi è apparso chiaro lo sguardo della regista su questa storia piena di contraddizioni. Lei l’ha saputa raccontare con una caratteristica tipica del cinema francese: il puro realismo sociale. In più c’è anche un senso dell’umorismo tipico del cinema britannico. C’è del cinema e uno sguardo in questa storia”.
Infine la regista conclude: “Sono partita da un dato: l’80% delle assegnazioni di affido di minori sono dovute a casi di inadempienza ossia alla difficoltà in cui si trova un genitore a gestire un figlio. La stessa percentuale vale per i bambini che vengono poi reinseriti nella propria famiglia alla fine di un percorso che può durare anche dieci anni. In Francia c’è una precisa volontà di reinserimento, di ritorno a casa di questi bambini, che talvolta arriva ad essere contestabile perché non è detto che sia nell’interesse del minore tornare a casa. La difficoltà può venire da un licenziamento o da un divorzio che mette in una posizione di maggiore fragilità le donne. Questo l’ho studiato ascoltando le famiglie e le registrazioni dei giudici e questo è stato davvero illuminante”.