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La stanza del figlio © SACHER DISTRIBUZIONE
Il riso e il pianto sono contagiosi, ma mentre quasi sempre accettiamo il contagio di una risata, quasi sempre resistiamo alle lacrime come un'incursione irresistibile di un bisogno corporale. Trattieniti, se il film ti sta facendo piangere. Ma lasciati andare, dai, se gli altri ridono.
Woody Allen perse gran parte dei fan della sua prima filmografia comica. Nanni Moretti, uno dei “nuovi comici” quando il cinema italiano era assai disorientato sul da farsi dopo l’archiviazione dei “padri”, disorientò perché faceva ridere, ma poi neanche troppo, (dall'autarchico ai paradossi diagnostici di una malattia, dal moralismo sessuofobico del prof di matematica alle ossessioni di un padre-neonato), e poi, a un certo punto, zac, fa piangere, e gli danno anche la Palma d'Oro a Cannes.
Ma una cosa è raccontare il processo del lutto a partire da una tragedia (La stanza del figlio) o raccontare il processo di una eclatante perdita definitiva (Mia madre, legata a una nascita, un film), un’altra la costante percezione del dolore che attraversa tutto il cinema di Moretti. Come per Allen, o prima Tati, e da noi anche Nichetti o Troisi, l'allineamento tra personaggio, attore e regista, teneva in piedi l'idea dell’“Auttore”, in un certo clima culturale (e politico) di impegno-disimpegno tra gli anni '80 e '90, “morettismo” compreso, ma nella commedia di Moretti era facile sentire ogni volta un tradimento delle aspettative.
Questo tradimento ha formato e cresciuto nel corso del tempo un pubblico, il suo pubblico per i suoi film, disposto a stare tra la risata e il pianto come ci si accomoda davanti a una finestra morale sulla vita. Il cinema di Moretti è attraversato dalle forme del dolore come inevitabile fiato del suo discorso etico e civile, un tormento, una sofferenza esistenziale insediata nei film dall'io morale al lavoro sulle storture, l'egocentrismo, la debolezza, l'indifferenza.
Detto che il regista è sempre riuscito a tenerci un passo prima dal sensazionale emotivo quando ha affrontato il dolore come tema (per esempio, anche in quell'abbraccio scultoreo e un po' esibito della famiglia singhiozzante sopravvissuta alla perdita del figlio) e che proprio quel modo “semplificato” di girare/montare additato come non-cinema dal vento formalista oggi ci dice quanto fosse, ed è, pertinente, è invece un tratto specifico di Moretti la pervasività di uno sguardo infelice sul mondo, dall'angoscioso tavolino di bar dei neo-vitelloni orfani di ideali (Ecce bombo) al vuoto dietro le tende porpora del balconcino sacro (Habemus papam).
Queste cose le ha già percorse, e bene, Claudio Carabba, che tiene in mano i fili dal grido straziante dell'ambulante di Ecce bombo al silenzio di dio di La messa è finita all'attesa del tragico di La stanza del figlio tra i componenti della famiglia in giro per la città: “La morte avrebbe potuto prendere chiunque e il dettaglio probabilmente rende più chiuso e muto il grande pianto” (La costanza del dolore, in Il cinema di Nanni Moretti, Sncc, Edizioni Aida, 2008).
Così, per non sembrare solo un segugio di sensibilità altrui, sono andato più indietro possibile a cercare, trovando queste mie righe di recensione di giornale all'uscita di Bianca (1984, “Il Ticino”), un po' pressate dalla contiguità generazionale con l'autore: “Pare che Moretti abbia trovato in questo nuovo film il coraggio e la sincerità per trasformare quel sentore confuso sulla vera collocazione e sui veri drammi di una generazione in sofferenza filmabile, una concreta 'angst' kirkegaardiana, superando il ritornello lezioso della maturità mancata e del ritiro depressivo del pensionamento a vita 'dopo la rivoluzione'”.