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Michelangelo Antonioni sul set di Blow Up
Oggi, 31 maggio, si inaugura a Ferrara lo Spazio Antonioni, progetto museologico a cura di Dominique Païni, già direttore della Cinémathèque Française e del dipartimento culturale del Centre Pompidou, che espone l’opera omnia dell’autore nelle sue molteplici articolazioni e devoluta alla sua città natale, per volontà dello stesso e della moglie Enrica, a metà degli Anni Novanta. Spazio Antonioni, situato presso Palazzo Massari, intende esplorare ed esibire i nessi tra il regista e gli esponenti della cultura contemporanea in una fruizione particolarmente attenta alle nuove generazioni. Il progetto è stato elaborato dallo studio internazionale Alvisi Kirimoto ed è distribuito su due piani secondo un itinerario ispirato alla pratica stilistica antonioniana del piano sequenza.
L’evoluzione delle forme narrative contemporanee viene attuata, com’è noto, già nei primi decenni del Novecento dalle arti figurative con la soluzione informale e astratta, soprattutto di Kandinskij e Klee, Pollock e Rothko; dalla musica con la svolta dodecafonica di Schönberg e Berg; dalla letteratura con le trasformazioni diegetico-semantiche delle neoavanguardie degli anni ’60 a partire dalle teorizzazioni di Barthes e di Eco alle opere di Beckett e Burroughs, Salinger e Kerouac e dal Nouveau Roman di cui Robbe-Grillet è stato capofila. In tale innovativo contesto, per quanto riguarda il cinema, è indubbio che Michelangelo Antonioni, a sua volta scrittore e pittore, sia da considerare l’esponente più eminente di un simile rinnovamento estetico per aver focalizzato sia il discorso barthesiano sulla de-narrazione sia l’idea di de-costruzione narrativa di Robbe-Grillet, con opere che hanno radicalmente ri-formato il linguaggio filmico della modernità e influenzato intere generazioni di cineasti.
“Ha lasciato – come dichiarato da Francis Ford Coppola – un’impronta su centinaia di registi contemporanei”. A conferma di tale considerazione si distinguono cineasti come Resnais, Wenders, Jancsó, Angelopoulos, che esplicitano questa influenza nello stile delle loro opere. Martin Scorsese, pur non avendo introiettato figurativamente la lezione antonioniana, ha così concettualizzato la sua riconoscenza: “Antonioni è uno dei più grandi artisti del XX secolo, un poeta del nostro mondo che cambia, un pittore del labirinto delle nostre emozioni, un architetto della nostra ambigua realtà. Le sue opere si rivolgono sia all’anima dell’individuo, sia allo spirito comune della civiltà occidentale”.
Ed è nella capacità di aver anticipato tematiche della modernità quali il disagio esistenziale, la contestazione giovanile, le istanze sociali del terzo mondo, la relazione di empatia con le culture orientali, le questioni ambientali ed ecologiche, la complessità della relazione di coppia, il rapporto con l’arte e le nuove tecnologie, nonché il discorso formale sulla natura dell’immagine, che consiste la cifra della sua insuperabile contemporaneità.
Da Cronaca di un amore a Il grido, da L’avventura a La notte, da L’eclisse a Il deserto rosso, così come da Blow-up a Zabriskie Point, da Professione: reporter a Identificazione di una donna, da Al di là delle nuvole a Lo sguardo di Michelangelo, Antonioni, con la propria visione ellittica ed elusiva, traccia ininterrotte traiettorie di erranze, assenze, sparizioni, inquadrature fuori campo/fuori tempo, fughe dal senso, verità tangenziali, vuoti pieni di silenzio, rovesciando le intenzioni di uno sguardo iscritto nella pienezza del visibile per esibire quanto si cela oltre il Reale, negli interstizi della diegesi e aprire, con pertinente sottigliezza, al non visibile.
Una sottigliezza che, come sostiene Barthes, coinvolge non solo Antonioni in quanto cineasta, ma ogni artista dell’era contemporanea: «tu lavori per rendere sottile il senso di ciò che l’uomo dice, racconta, vede o sente, e tale sottigliezza del senso, questa convinzione che il senso non si ferma grossolanamente alla cosa detta, ma si spinge sempre più lontano, ammaliato dal fuori-senso, è quella, credo di tutti gli artisti, il cui oggetto non è questa o quella tecnica, ma quello strano fenomeno che è la vibrazione».
Sono le rifrazioni dello stupor vacui…
Dispositivo dell’in-visibile che costituisce la costante estetica dell’autore nelle topografie di uno sguardo volto all’apertura del senso nella stupefazione del vuoto, ma di un vuoto che non è il nulla, bensì l’Altrove, generatore di un’attesa di epifania.
Il campo visivo non contiene il visibile all’interno dell’inquadratura, ma lo sospende nelle dinamiche del fuori campo e del piano sequenza. Il vuoto architettonico, coincidente con l’idea di desertificazione, lascia presagire, da una originaria assenza, l’approssimarsi di un’apparizione.
La propensione a fissare questo approssimarsi degli eventi anziché il loro accadimento, Antonioni la rivela a proposito de Il grido scrivendo che in un vicolo cieco di una Londra del ’52 era rimasto inutilmente in attesa per ore di un passante: «credo che questi piccoli fallimenti, questi momenti vuoti, questi aborti di osservazione siano, tutto sommato fruttuosi. Quando ne abbiamo messi insieme un bel po’, non si sa come, non si sa perché, viene fuori una storia. Il soggetto del grido mi venne in mente guardando un muro».
Se per Antonioni materia di de-narrazione è il vuoto, tale approccio si riscontra anche nell’Espressionismo astratto di Rothko, come riconosciuto da entrambi nell’incontro newyorchese del ’62 in cui il pittore, nel mostrare le proprie tele, aveva affermato che ambedue trattavano lo stesso soggetto: il nulla. In una successiva lettera, il regista ferrarese riconoscendo la propria affinità elettiva con l’artista, aveva precisato: «in questi quadri che sembrano fatti di niente, ossia di solo colore, scopro qualcosa di nuovo, si scopre tutto quello che c’è dietro il colore, a dargli senso…».
Nella propria pratica filmica, Antonioni, estende tale riflessione all’immagine in quanto tale, in una ricerca per lui inesauribile: “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere”.
In Professione: reporter, film sulla crisi d’identità del protagonista che si con-fonde con quella professionale dell’autore sull’impossibilità della rappresentazione oggettiva del Reale, lo stupor vacui si esprime in due emblematiche sequenze: quella in cui Locke (Jack Nicholson), sporgendosi dall’alto di una teleferica, prova l’ebbrezza vertiginosa della libertà in un volo simulato e quella in cui la ragazza senza nome (Maria Schneider), a bordo di una decappottabile, gli chiede da cosa stia fuggendo e lui le risponde di voltarsi indietro per vedere. La ragazza si gira verso la strada percorsa con un’espressione di progressivo stupore verso un vuoto sempre più significante.
In Antonioni lo stupor vacui non si limita in via esclusiva al cinema, ma attraversa la sua intera produzione artistica come mostra il disegno A volte si fissa un punto… commentato dallo stesso autore: «Il momento è drammatico, ma il personaggio può anche non guardare l’altro. Conosce la sua faccia, sa perfettamente cosa pensa e perché. Deve guardare altrove per capire, nel vuoto».