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Mediha
Mediha è una delle tante bambine yazida rapite dall’ISIS nel nord dell’Iraq. Era il 2014, esattamente dieci anni fa. Da allora un calvario dopo l’altro, venduta più volte a diverse famiglie, fino alla fuga. Oggi Mediha è una ragazza adolescente, con un bel sorriso. Quello stesso che ha illuminato il Pordedone Docs Fest all’apertura, con il documentario di Hasan Hoswald intitolato proprio a questa giovane eroina: Mediha. Hoswald, ieri sera in sala grande accanto al direttore del festival Riccardo Costantini, sta portando questo lavoro – che ha già vinto il Grand Jury Award l’Audience Award al Doc NYC 2023 – in giro per il mondo: “A breve organizzeremo anche una proiezione per l’ufficio di presidenza iracheno. Il genocidio del popolo yazida non va dimenticato”, ha detto al pubblico friulano.
Collegata da New York, ospite nella casa di Hoswald, la stessa Mediha, che si è commossa al momento del conferimento del Premio Images of Courage 2024 che il festival assegna ogni anno con l’Ordine dei Giornalisti (Nazionale e del Friuli Venezia Giulia). Per lei anche una somma di denaro con cui ricominciare una nuova vita. All’orizzonte per lei c’è l’attivismo: “Voglio mostrare e raccontare al mondo ciò che è accaduto al mio popolo e ciò che sta ancora accadendo.”
Radicale la scelta di Hoswald: raccontare il ritorno a casa di Mediha affidando alla stessa il compito di filmare: Mediha accetta senza indugio, rivolge la videocamera verso sé stessa e si racconta. L’offensiva dell’ISIS, le decapitazioni mostrate ai bambini, la separazione dai suoi genitori, l’angoscia per la sorte del padre e della madre (ancora missing), quella per il fratellino, le violenze “indicibili” a cui è stata sottoposta mentre veniva venduta come schiava da un uomo a un altro. Incredibile la serie di traumi che Mediha e centinaia di bambini come lei hanno patito in questi anni. Com’è possibile, se è possibile, guarire?
La vicenda di Mediha ci fa capire come storie così drammatiche di abusi possano trovare un senso solo in un percorso di riparazione, nella ricerca della verità per quanto è accaduto e nell’ottenimento di una qualche forma giustizia. Nel suo caso siamo vicini almeno alla seconda, con l’individuazione di uno dei suoi aguzzini e il processo per assicurarlo alla giustizia che muove i primi passi.
La ricerca della verità invece si scontra con il mistero del male, con qualcosa che travalica, bambini o adulti, l’umana facoltà di comprendere. Sotto l’aspetto morale, il lavoro di Hasan Oswald è importante perché nel restituire la videocamera a Mediha capovolge l’asse dello sguardo, con la protagonista che finisce implicitamente per guardare noi, chiedendosi qual è la nostra posizione rispetto alle tragedie degli altri. Basta essere spettatori per essere anche testimoni?
Nel finale il fratellino più piccolo di Mediha viene liberato e restituito alla sua famiglia d’origine. Ma qual è la sua famiglia? Il bambino la notte è inconsolabile perché non riesce a dormire senza l’abbraccio e i baci della sua mamma, vuol tornare da lei. Ma quella mamma tanto reclamata non è la vera mamma. È la donna che lo ha cresciuto dopo averlo comprato chissà da chi. È con queste contraddizioni, con tale frustrante non linearità, che dobbiamo fare i conti quando ci imbattiamo in storie come quelle di Mediha e dei suoi fratelli. Per poter agire diversamente bisogna prima pensare diversamente. Stare nella complessità: la principale sfida oggi del documentario è questa.